La Mediazione Familiare con le famiglie d’origine

In Psicologia Clinica, Psicologia Clinica Famiglia, Psicologia Legale e Giuridica by Centro PSY

Gestire Servizi di Mediazione Familiare pubblici, ossia Servizi Territoriali, ci ha consentito di contattare un numero sufficientemente significativo di famiglie tale da poter sperimentare con ciascuna tipologia familiare il nostro modello di mediazione per risolvere le problematiche emergenti. Abbiamo infatti utilizzato la mediazione familiare in situazioni di adozioni difficili, di affido familiare, di gestione dell’anziano o del paziente portatore di handicap, nonché nei conflitti intergenerazionali.

Pur perseguendo sempre gli stessi obiettivi, che possiamo sintetizzare con la seguente definizione: “utilizzare il conflitto per favorire l’evoluzione degli individui sostenendo la crescita differenziata di ciascun membro della famiglia nel rispetto delle sue esigenze e della sua personale fase di sviluppo”, la mediazione familiare, se applicata a problematiche diverse dalla separazione e dal divorzio, presenta delle differenze metodologiche che interessano
la struttura del setting,
la motivazione dei partecipanti,
il programma complessivo dell’intero processo di mediazione.

Non intendiamo approfondire in questa sede le differenze e le caratteristiche specifiche di ogni intervento in relazione al tipo di famiglia a cui è rivolto, ma ritenevamo comunque opportuno restituire all’uditorio un dato rilevante sulle possibili applicazioni dell’intervento “mediazione familiare”: dalle statistiche in nostro possesso, possiamo affermare che tale metodologia può avere successo nei casi suddetti, (adozioni, affido, ecc.) solo a condizione che sia stata preventivamente creata una corretta integrazione tra gli operatori coinvolti nei casi seguiti in mediazione.

a) La Mediazione nella separazione coniugale: tipologie di conflitti.
Vorrei dunque portare la vostra attenzione sugli interventi di mediazione rivolti esclusivamente alle famiglie in via di separazione o già separate/ divorziate. In questa area particolare, dalle osservazioni da noi condotte, abbiamo individuato quattro dinamiche specifiche di conflitto, che abbiamo così denominato:

A conflitto evolutivo
B conflitto da triangolazione
C conflitto da negazione
D conflitto da invischiamento.

E’ importante sottolineare che l’intervento di mediazione può essere caratterizzato da alcuni aspetti tecnici specifici in relazione al tipo di conflitto presente nella famiglia. Nella prima tipologia, conflitto evolutivo, rientrano quelle famiglie in cui il conflitto è espresso principalmente da uno dei due ex coniugi, che viene osteggiato dall’altro ogni qual volta cerchi di assumere responsabilmente il proprio ruolo genitoriale. In questi casi infatti il timore dei genitori è principalmente quello di essere spodestati, esclusi dalla vita dei figli, e tale vissuto appartiene più frequentemente al genitore non affidatario. L’altro, invece, incoraggiato dalla conferma sociale proveniente da un organo ufficiale, il Tribunale appunto, tende ad amplificare la propria onnipotenza e a ritenersi unico destinatario di verità pedagogiche indiscutibili. Naturalmente tale posizione relazionale può variare in base alla fase del ciclo vitale in cui si trova la famiglia al momento della separazione: più i figli sono piccoli, maggiore sarà la contrapposizione tra i genitori in riferimento alla propria competenza.

Abbiamo definito questa tipologia evolutiva in quanto è stato possibile osservare in queste famiglie una buona capacità di differenziarsi e di conseguenza di appartenersi, le coppie sono formate da individui che al momento della separazione vedono minacciata l’unica appartenenza che in quel momento riconoscono, quella con i propri figli e che, nel tentativo di garantirne la continuità manifestano comportamenti ambivalenti di inclusione/esclusione dalla vita familiare: tale configurazione si rivela transitoria e favorisce nei figli lo sviluppo graduale di una doppia appartenenza ai due nuovi sistemi, quello del padre e quello della madre, ancora in embrione, che si andranno poi a costituire con maggiore definizione successivamente.

Appartengono alla seconda tipologia, conflitto da triangolazione, quelle famiglie in cui ad esprimere il conflitto è uno dei figli, magari attraverso il rifiuto di rispettare il diritto di visita del genitore non affidatario, o viceversa, lamentando l’eccessiva severità dell’altro. Il dato clinico è facilmente rilevabile in quanto i figli, essendo apertamente schierati, manifestano il loro dissenso in maniera chiara ed inequivocabile con frasi agghiaccianti del tipo “non ti voglio vedere mai più e comunque con te non ci parlo” rivolte all’uno o all’altro genitore, oppure richiedono continuamente di telefonare, durante la permanenza con uno dei due, all’altro genitore, per rivolgergli qualsiasi richiesta, anche di banalissima e futile entità. Naturalmente, a conferma di un innesco relazionale sufficientemente disfunzionale, alle richieste del figlio il genitore che viene contattato risponde in maniera diametralmente opposta a quanto detto dall’altro, con un interessantissimo effetto ping-pong!!

In questi casi la contrapposizione tra i due ex-coniugi viene rappresentata da uno dei figli che inconsapevolmente “agisce” l’aggressività dei suoi genitori. Generalmente tale configurazione è il risultato di una triangolazione precoce in cui i figli sono stati intrappolati nel conflitto genitoriale ancor prima della separazione e pertanto, quando questa ha luogo, il movimento di alleanza si accentua producendo ansia e angoscia nei figli, che vedono concretizzarsi la spaccatura solo virtualmente rappresentata quando la famiglia era ancora unita.

Da questa tipologia escludiamo naturalmente i casi in cui il rifiuto dei figli di recarsi da uno dei genitori sia la risposta ad una reale inadempienza da parte di questi, quando la relazione con i figli è gestita in maniera eccessivamente frustrante, come nei casi in cui i genitori promettono tanto e producono concretamente poco, o vanificano sistematicamente le aspettative dei loro bambini. In questi casi sono proprio i comportamenti dei figli a rivelarsi ottimi indicatori di patologie personali o di gravi ed incolmabili distanze affettive che richiedono una specifica ed approfondita valutazione psicodiagnostica.

Il conflitto da negazione, terza tipologia, si verifica quando l’evento separativo è stato particolarmente traumatico perché improvviso e apparentemente inaspettato, ed attribuito essenzialmente all’arrivo di un nuovo partner, e dunque, ad un tradimento affettivo di uno dei coniugi. Il conflitto viene espresso da uno dei due genitori con possibili alleanze che interessano la famiglia nucleare, i figli ad esempio, una o entrambe le famiglie di origine, il parentado esteso, la rete amicale, con significativi sviluppi a lungo termine del movimento adattativo dei membri alla separazione. Abbiamo infatti definito questa configurazione “negazione” in quanto per anni può perpetuarsi un rifiuto categorico dell’evento separativo con attribuzione indebita della totale responsabilità al nuovo partner, che, automaticamente, diviene capro espiatorio di circostanze che lo hanno solo tangenzialmente investito. In tal modo però il “genitore tradito” può sottrarsi sistematicamente alla personale responsabilità che ha poi contribuito, nella dinamica relazionale della coppia, alla “fuga” silenziosa dell’altro. Le conseguenze più vistose riguardano gli effetti che tale dinamica comporta nella gestione dei figli che rifiutano di incontrare il nuovo partner perché questo potrebbe significare per l’altro genitore un ulteriore tradimento! E ancora, è ostacolata qualsiasi forma di elaborazione del lutto separativo, con grandi resistenze al cambiamento incluso il tentativo operato dall’intervento di mediazione. Questo viene richiesto, solitamente, dal coniuge che ha “tradito” ed accettato dall’altro solo in funzione della possibilità di incontrare l’ex e tentare un estremo ultimo slancio per recuperare la relazione affettiva perduta, con manovre seduttive o provocatorie. In questi casi la mediazione deve essere a maggior ragione preceduta da più incontri di consulenza per dissipare ogni barlume di fantasia riparatoria del precedente rapporto e chiarire le finalità dell’intervento.

b) Il caso.
Per descrivere la quarta tipologia, conflitto da invischiamento, abbiamo preferito citare un caso seguito presso uno dei nostri Servizi pubblici di Mediazione. Si tratta di quelle famiglie in cui il conflitto è manifestato dai nonni per la mancanza di una chiara delimitazione dei confini con le rispettive famiglie di origine dei due ex coniugi.

Maria e Franco, così chiameremo la coppia in questione, sono i giovanissimi genitori di Anna e Luca, rispettivamente di 4 e 7 anni. Giungono in mediazione su indicazione del Tribunale per i minori in quanto erano ormai trascorsi due anni da quando, dopo la separazione, lo stesso Tribunale aveva affidato i due bambini ai nonni paterni. Tale decisione all’epoca, era scaturita da un evento doloroso: il ricovero coatto della madre dei bambini per uno stato alterato di coscienza. La donna aveva infatti manifestato idee suicidarie e ripetute crisi depressive: la sua fuga dalla casa dei genitori, con i quali viveva insieme ai due bambini non poté che allarmare tutti i familiari… Il suo ricovero durò circa un mese, ma dopo la dimissione Maria recuperava con grosse difficoltà il suo equilibrio psicologico, e furono necessarie cure idonee ed un altro ricovero perché la crisi rientrasse del tutto.

Avendo ormai ritrovato una condizione di relativo benessere, Maria inoltrò al Tribunale la richiesta di avere in affidamento i suoi bambini che, negli ultimi due anni, aveva incontrato con continuità ma per poche ore solo la domenica. Il Tribunale a tale richiesta rispose con una convocazione congiunta di Maria e Franco. Durante il colloquio emersero atteggiamenti di ambivalenza da parte di entrambi al punto che il Giudice dubitò della loro determinazione a restare separati e, per valutare correttamente le loro intenzioni li inviò al nostro Servizio.

c) Inizio dell’intervento di Mediazione: 1° fase.
La prima fase del nostro intervento si rivelò presto molto conflittuale proprio per l’ambiguità dell’uno nei confronti dell’altra, e, dall’analisi attenta degli scambi tra Maria e Franco apparve chiaro che l’indecisione era solo un pretesto per tornare nuovamente a parlarsi e lasciarsi alle spalle le rispettive famiglie di origine.

Questo intento però, paradossalmente li riportava sempre più vicini ai propri nuclei familiari, e dunque, ricongiungersi o separarsi non era solo un logorante dilemma ma un vero e proprio circuito relazionale a doppio legame. Ecco come esempio uno spaccato di una delle interazioni più ricorrenti:

– “Capisco bene perché non vuoi far pace, per non darla vinta a me ma ai tuoi genitori. Come glielo racconti che stiamo di nuovo insieme? Magari proprio a tuo padre che mi ha sempre odiato e crede che sia io la causa delle tue crisi!?!” Urlava Franco con rabbia e sdegno.

– “Senti un po’ chi parla! Proprio tu che per non lasciare mammina tua hai rifiutato un lavoro di prestigio che avrebbe risolto tutti i nostri problemi!”, tuonava inferocita Maria.

Quale poteva essere allora la via di uscita per entrambi? Quale risposta competeva al mediatore in una simile conflittualità? In fondo, di cosa discutevano Maria e Franco?

Erano paralizzati nelle loro decisioni perché qualunque fosse stata la scelta dell’uno, all’altra appariva come l’effetto della manipolazione della sua famiglia d’origine. Svelare questa complessa dinamica permise ad entrambi di vedere lucidamente in quale assurdo meccanismo erano intrappolati, e quasi improvvisamente sembrarono risollevati da quell’incarico fin troppo oneroso: continuare a farsi la guerra perché vincessero non loro, certamente, ma.. “i nonni”! Per Maria e Franco capire chi c’era veramente dietro le quinte fu molto spiacevole ma altrettanto produttivo: decisero di comune accordo di separarsi, certi che questa scelta li avrebbe ben presto tirati fuori dai guai…purtroppo i problemi seri erano invece appena cominciati.

d) Ridefinizione della richiesta: 2° fase della Mediazione.
Se la conflittualità era elevata nella prima fase, nella seconda divenne a dir poco esplosiva! I bambini…: a chi andavano affidati? Questa volta, nell’illusione di esser loro gli unici protagonisti, Franco e Maria scesero in campo ancora più agguerriti, e consideravano legittima ed autentica qualsiasi personale affermazione.

– “Non penserai che io sia qui per far valere i diritti dei miei genitori,” sosteneva con fermezza Franco,

– “ma certamente non puoi negare che se li sono cresciuti finora con tanta devozione, e non sarebbe giusto, proprio adesso che si sono abituati, sottrarre loro i dolci nipotini!”

– “Nient’affatto” ribatteva Maria,” proprio perché se li sono goduti finora, i figli miei, miei, chiaro!?! miei, è giusto che tornino con me!”

Questa volta non fu più sufficiente ridefinire, chiarificare, esplicitare i vari livelli della comunicazione per sedare il conflitto, che ormai si estendeva fino ad includere in maniera determinante anche i nonni, e, pertanto, il mediatore decise di convocare le rispettive famiglie di origine separatamente.

e) Le famiglie di origine in Mediazione
Quanto fossero coinvolte nella gestione dei bambini era molto evidente, ma ancor più vistosa era l’arroganza con la quale sia i genitori di Franco che di Maria ritenevano di essere maggiormente capaci di loro nell’educare i nipotini, riuscendo a svilire con grande destrezza il loro operato.

Posta in questi termini l’onnipresenza delle famiglie di origine appariva quasi come una necessità determinata dall’incapacità dei due giovani di “fare i genitori”, ostacolati nel disperato tentativo di crescere e… di far crescere i propri figli. Mentre il mediatore rendeva gradualmente visibili questi intrecci relazionali, i nonni indietreggiavano progressivamente, per dissipare anche il minimo sospetto che i rispettivi figli fossero inadeguati, poco efficienti, o addirittura immaturi!

E’ interessante notare che in loro presenza, sia Franco che Maria tendevano a nascondersi dietro “l’autorità” del mediatore per far capire ai propri genitori che in fondo volevano sentirsi liberi di decidere.

Si era venuta a creare una dinamica speculare molto interessante: così come le famiglie di origine volevano ancora governare la loro vita, anche Maria e Franco volevano decidere sul futuro dei propri figli! Questa realtà li rese consapevoli dell’eredità emotiva che ciascuno portava come un fardello ingombrante nei nuovi rapporti con i propri figli, e che solo sganciandosi una volta e per tutte dalle aspettative dei “nonni” potevano scegliere in piena autonomia. Quando si ritrovarono di nuovo soli con il mediatore capirono che l’unica vera autorità era quella che ciascuno, personalmente ed individualmente, poteva acquisire sostenuto da un’assunzione responsabile del proprio ruolo genitoriale, e dunque, che non dovevano più nascondersi dietro qualsiasi adulto, mediatore incluso, per ottenere il riconoscimento della propria competenza.

“Promossi genitori” sul campo, dopo lunghe e talvolta estenuanti discussioni, giunsero alla conclusione che un affidamento congiunto li avrebbe tranquillizzati maggiormente: sentirsi sullo stesso livello in termini di responsabilità contribuiva a creare il giusto confine anche con la famiglia estesa, e nei confronti dei bambini potevano recuperare quell’immagine sana di coppia matura e quindi unita per una giusta causa. La frase conclusiva di Maria fu molto eloquente:

“Chiunque di noi due avesse portato a casa sua i bambini li avrebbe sottratti all’altro per consegnarli ai nonni, e quindi li avrebbe comunque persi.

Così saranno solo nostri e poco importa in quale casa si trovino: su di loro veglieremo insieme!”

Conclusioni
Abbiamo sostenuto nella prima parte che ad ogni tipologia di conflitto corrispondeva una specifica modalità di intervento della Mediazione. Nel caso illustrato, l’unico che ha approfondito l’aspetto tecnico è fondante l’esplorazione compiuta dal mediatore, durante i colloqui, delle dinamiche relazionali che sostenevano il conflitto.

Nella letteratura esistente sulla Mediazione si sottolinea l’importanza della “definizione del problema” come punto di partenza, di avvio del processo mediatorio. Riteniamo però sia opportuna una concettualizzazione differenziata tra “definizione del problema” e “dinamica del conflitto”.

I contenuti che solitamente vengono ritenuti dalla coppia gli elementi significativi del “problema” che scatena il conflitto, potremmo paragonarli ai sintomi che in ambito psicoterapeutico descrive il paziente imputandoli come unici ostacoli al proprio benessere: interessano la parte manifesta, esplicita delle difficoltà che la coppia nel caso della mediazione, il paziente nel contesto terapeutico, rilevano nella loro esperienza e poiché questi contenuti sono per loro familiari è più facile che il mediatore o il terapeuta vi acceda per creare il giusto contatto con la famiglia.

Portare la coppia a definire il problema è l’aspetto che tecnicamente ha la priorità su qualsiasi altra area perché permette al mediatore di stabilire alcune regole del setting. Inoltre, ammettere di avere un problema è la premessa per chiedere aiuto, ed anche se non sempre la coppia riconosce come tale lo stesso problema, non può non riconoscere di avere in comune l’esigenza di essere sostenuta in quella fase specifica.

Valorizzando tale esigenza come espressione di una discreta maturità, il mediatore inizia a costruire quel clima di fiducia indispensabile anche per porre le premesse della fase successiva, l’esplorazione delle dinamiche che sostengono il conflitto.

Nel caso illustrato se non fossero emersi gli aspetti collusivi delle famiglie di origine nella difficoltà della coppia a separarsi, intanto, dai propri genitori e poi l’uno dall’altra, l’evoluzione dell’intervento mediatorio rischiava di lasciare irrisolti i veri problemi che alimentavano la conflittualità, ed anche se la coppia avesse raggiunto una decisione comune circa l’affidamento dei bambini, tale accordo non avrebbe avuto lunga durata ma rischiava di rompersi alla prima, inevitabile incomprensione.

La Mediazione Familiare è realmente un processo di cambiamento solo se può garantire a lungo termine la stabilità delle relazioni, perché è questa la fonte di sicurezza per i figli, al di là dell’organizzazione di vita prospettata dai loro genitori.

Fonte: Psicoterapia.it
Autore: Maria Rosaria Menafro

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