Medicalismo e farmacodipendenza: dipendenza e autonomia decisionale in una società aperta

In Psicologia Clinica by Centro PSY

Forse c’è qualcosa che la psichiatria oggi non può e non deve fare, ed è curare il disagio esistenziale. Il disagio esistenziale, il vecchio “male di vivere”, s’è diffuso, negli ultimi anni, ovunque nel mondo sia stato importato il modello di vita occidentale, fatto di ansie da prestazione, di competizione, di corsa al successo. Evolutosi in uno stato nevrotico acuto, il disagio esistenziale è oggi caratterizzato da una frenetica ricerca di consenso sociale, di facili gratificazioni e di status simbol e, più in profondità, dal terrore di essere “diversi” dagli altri e di “mancare” di qualcosa.

Fino a non molto tempo fa, il male di vivere fungeva da stimolo per un travaglio interiore, fatto d’incertezze e di domande, al termine del quale l’individuo riusciva il più delle volte a darsi delle risposte e a proseguire la vita più sicuro di sé e saldo in principi forgiati di sua mano.

Oggi, ai primi segni di malessere e non trovando più coordinate culturali che soccorrano la nostra confusione, ci rivolgiamo al mondo medico, il quale risponde sempre più spesso in termini riduttivi e inadeguati: diagnostica un “disturbo d’ansia” e prescrive farmaci. Questo atteggiamento (in verità più medicalista che medico, perché classifica ogni male sub specie medica) aggrava lo stato di spaesamento valoriale in cui viviamo, radicando in noi la convinzione di non possedere risorse personali a cui attingere, e trasformandoci così in potenziali farmacodipendenti.

La farmacodipendenza consiste nell’uso abituale di farmaci per risolvere ogni male provenga dal corpo o dalla mente (compresi il dolore morale e l’ansia e l’insoddisfazione esistenziali). Pressati da diagnosi e pillole finiamo per vivere nell’attesa che la medicina amministri per intero la nostra vita esentandoci dal dolore e, in questa angosciosa attesa, smarriamo – come Vladimiro e Estragone nel dramma di Beckett Aspettando Godot – la capacità di attingere alle risorse che possediamo in quanto esseri umani.

Siamo in un’epoca in cui l’industria medica ha fatturati immensi e, per contro, l’uomo comune ha sempre meno fiducia in se stesso e rischia la bancarotta esistenziale. Cosa possiamo chiedere allora non solo al mondo medico, ma anche alla psicologia, sempre più prona alla moda del medicalismo? Di recuperare un briciolo della vecchia saggezza filosofica e di risvegliare nel paziente la fiducia nelle risorse personali. Il benessere psicologico non proviene mai dall’esterno di noi stessi, tanto meno da un rimedio onnipotente. Deriva, semmai, in prima istanza dall’uso di strumenti conviviali: risorse umane che gli altri ci mettono a disposizione in varia forma, sia empirica che professionale; ma in ultima istanza, quel benessere deriva dalla piena consapevolezza che l’equilibrio interiore è l’effetto di una lenta e laboriosa conquista personale.

La farmacodipendenza
Farmaco, farmacodipendenza, una parola spiega l’altra. La parola farmaco deriva dal greco phàrmacon: nella cultura greca classica, il phàrmacon era l’animale sacrificale, necessario a ristabilire l’equilibrio con gli dei. Faceva parte, dunque, di un sistema rituale religioso, gestibile dagli uomini ma sottratto al loro controllo. Per analogia il termine è entrato nel lessico della scienza medica per definire la gamma dei prodotti utili al riequilibrio biologico dell’organismo ammalato. E il passaggio dal campo religioso a quello medico non è privo di suggestioni: la medicina, prima di essere un corpus di saperi di origine scientifica, è una tecnica di rassicurazione e di persuasione che ha come oggetto le ansie umane.

Il farmaco, dunque – in modo del tutto consapevole negli scienziati, ma inconsapevole sia negli utenti, che spesso negli stessi tecnici – è uno strumento di controllo e di manipolazione dell’uomo da parte dell’uomo. Esso ha una funzionalità pratica – oggetto di ricerca e di riflessione scientifica – in quanto altera un equilibrio biologico allo scopo di spingerlo verso un nuovo equilibrio, ritenuto più sano. Ma allo stesso tempo altera la psiche insediata in quell’organismo nella misura in cui sposta la gestione del problema dall’interno all’esterno dell’individuo, limitandone l’autonomia. Questo secondo passaggio dovrebbe essere oggetto di riflessione psicologica, filosofica e morale (oltre che politica), ma non lo è quasi mai. E questo è un problema molto serio.

Lo specifico carattere di strumento per la manipolazione della natura biologica con effetti collaterali di manipolazione della mente rende il farmaco suscettibile di essere usato tanto in una direzione coerente con la crescita umana, quanto in modi eccessivi o deviati, tali da generare quei fenomeni di “controproduttività” segnalati da Ivan Illich per i quali uno strumento nato come utile e sensato può raggiungere una soglia oltre la quale il suo uso diviene un abuso. Superata questa soglia, anche il farmaco anziché essere utile e funzionale diviene disfunzionale, spesso dannoso, quindi patologico. L’assuefazione organica e la dipendenza psicologica, soprattutto se favorite da precise volontà economiche e politiche, fanno sì che il farmaco venga eletto a depositario non solo di legittime aspettative terapeutiche (relative al problema specifico), ma anche, sempre più, di una palingenesi dell’io, ossia di una acquisizione “magica” della sicurezza e del benessere. Nello specifico, il termine farmacodipendenza identifica una patologia psichica nella quale la normale ansia esistenziale e l’ansia sociale, derivata dalla sensazione di essere carenti o inadeguati rispetto agli altri, non vengono più avvertite come l’indice di un malessere vitale, esistenziale, da affrontare e risolvere mediante l’uso di risorse umane (personali e/o sociali); ma essendo avvertite come uno stato di malattia (che, secondo la moda medicalista attuale, è perdipiù uno stato di malattia cronico, perché di origine genetica) si ritiene debbano essere gestite con gli strumenti della medicina (oggi gli psicofarmaci, domani, forse, l’ingegneria genetica).

E’ di fondamentale importanza, per una corretta analisi del fenomeno, segnalare che l’abuso degli strumenti medici per risolvere il “male di vivere” si risolve sempre, in ogni circostanza, in una progressiva perdita del senso di responsabilità sia soggettivo che sociale circa la vita umana e in una delega sempre più massiccia di responsabilità e di competenza al mondo delle tecniche e della produzione industriale, quindi all’industria medica. Laddove un tempo erano la religione o il razzismo biologico a funzionare come oggetto di catalizzazione (e di controllo) di bisogni insoddisfatti, oggi è il medicalismo ad assolvere alla medesima funzione. La farmacodipendenza è una delle vie maestre attraverso le quali si realizza quella condizione psicologica e sociale che un tempo andava sotto il nome di alienazione e che oggi potremmo chiamare assoggettamento tecnico.

In sostanza, più aumenta l’uso indiscriminato di psicofarmaci, più scompaiono concetti come “esperienza”, “competenza”, “maturità”, “filosofia di vita”, “forza del carattere”, “aiuto”, “consiglio”, “condivisione”, “solidarietà”, “esempio morale” coniati da una tradizione filosofica e psicologica plurimillenaria.

L’autonomia decisionale
Il medicalismo è dunque una vera e propria filosofia di vita, un “way of live”, che si va diffondendo a macchia d’olio in un mondo nel quale un numero crescente di individui, infelici per la vita che conducono, non dispone tuttavia di strumenti culturali adatti a capire il proprio malessere, e si affidano – è il caso di dire – “anima e corpo” a una casta di tecnici il cui verbo è considerato indiscutibile.

Un numero crescente di individui si condanna spontaneamente alla dipendenza, cercando per il proprio malessere nient’altro che soluzioni semplici, immediate, facilmente fruibili e di mercato, quindi “conformi al volere sociale”. Di fatto, la farmacodipendenza di massa è senza dubbio “utile” all’industria medica e farmacologica perché consente la realizzazione di immensi profitti; ed è “utile” alla conservazione dello status quo perché, col suo solo esistere, diffonde un’ideologia secondo la quale il malessere psicologico soggettivo, interpretato come uno stato di malattia di origine genetica, non deriva mai da mali sociali sui quali esercitare un giudizio critico, ma sempre da imponderabili fattori biologici individuali.

Questa sempre più vasta massa di popolazione, indotta al medicalismo e alla farmacodipendenza, è spinta a pensare i problemi della vita in termini semplificati, privi di complessità.

A mio avviso, l’ossessiva insistenza sulla semplicistica equazione “disturbo = malattia = farmaci” non sarà, nel lungo periodo, priva di conseguenze. Dovrebbe essere chiaro, infatti, che colui che non sa affrontare la propria vita in modo attento e profondo è tagliato fuori dalla possibilità di intuire e gestire la complessità dei fenomeni (di tutti i fenomeni) e quindi di acquisire e sviluppare una cultura ricca e sofisticata. Col tempo, ciò porterà alla creazione di una classe servile di individui incapaci di processare dati complessi, una classe che pertanto sarà tagliata fuori dai centri decisionali dei processi produttivi e dell’organizzazione sociale. Ciò a beneficio di due élites: l’élite della potenza (economica, politica, militare) e l’élite della conoscenza (la cultura tecnica, umanistica e scientifica).

E’ mia opinione che entrambe queste élites, per continuare a mantenere il proprio status di élites, dovranno porsi una fondamentale meta identitaria: l’eliminazione (almeno per una quota dei loro membri) della tendenza a dipendere da fattori di conformizzazione estrinseci alla propria identità e quindi non controllabili, come appunto psicofarmaci, droghe, addestramenti e indottrinamenti cognitivo-comportamentali; perchè avranno bisogno, per continuare a esistere, di membri capaci di processare dati complessi, per gestire realtà complesse. In sostanza, avranno bisogno di individui capaci di pensare in piena autonomia emotiva, psicologica e intellettuale quelle soluzioni innovative e quelle decisioni morali che determinano il destino di ogni società (e di ogni casta). Per contro la società servile (una vasta classe di manodopera fisica e intellettuale a basso costo, inconsapevole dei processi storici collettivi e soggettivi) sarà sempre più indotta a fare uso di strumenti tecnici di effetto immediato, che ri-modellino la coscienza senza interrogarne i processi di formazione.

L’arroccamento antidemocratico di una classe a danno dell’altra (a fini di controllo e preservazione dello status quo) porterebbe al risultato di deviare i processi sociali da potenzialmente creativi e innovativi a autocratici, egemonici e conservativi.

Il processo democratico ha portato tante persone al desiderio di felicità e di realizzazione personali, ma allo stesso tempo ha generato nuove forme di ansia. Ebbene, perché il processo democratico di generale liberazione delle opportunità non rifluisca in fenomeni autocratici involutivi, che potrebbero portare la società nel suo insieme a una pericolosa stagnazione, dovrebbe essere nostra cura far sì che la divisione del mondo in due o tre classi incapaci di reciproco dialogo sia oggetto di consapevolezza critica, fino a rendersi suscettibile di processi di correzione.

In sintesi, la promozione di un consumo acritico e smodato di prodotti di cui i consumatori non hanno il controllo intellettuale favorisce la dipendenza e la passività generali, fino a ritorcersi contro la società nel suo insieme, che perde in capacità di innovazione e quindi non solo di crescita, ma anche di semplice sopravvivenza.

Per contro, la messa a punto di processi culturali in grado di generare autonomia decisionale nei vari attori sociali fornisce quell’apporto continuo di creatività, innovazione e responsabilità etica che fa di una società complessa un sistema forte e attivo, in grado di scommettere sul proprio futuro.

Appendice. Qualche dato
Solo recentemente si è iniziato a trattare l’argomento farmacodipendenza con una certa serietà, sia perché frenati dalla difficoltà di accettare che sostanze studiate e prodotte per migliorare le condizioni di salute degli esseri umani possano arrivare, nei casi estremi, a rivelarsi dannose, sia perché è ritenuta un “fenomeno collaterale” da alcuni per l’ottenimento di profitti economici e da altri per la salvaguardia dello status professionale. E’ un dato di fatto inquietante che gli psicofarmaci sono in testa alle prescrizioni mediche: nel 1996, in Italia, sono state vendute 64.000.000 di Benzodiazepine, contro i 61.000.000 dell’anno precedente. Nel 1999 la spesa nazionale per le Benzodiazepine a raggiunto gli 877.000.000.000, che sta a significare che ogni giorno 49 persone su 1000 hanno assunto questo tipo di tranquillanti.

Fonte: Psicoterapia.it
Autore: Nicola Ghezzani

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