Il suicidio nell’adolescenza

In Psicologia Clinica by Centro PSY

Uno dei problemi più gravi che colpisce il periodo adolescenziale è senz’altro il suicidio. E’ in effetti la prima causa di morte nei giovani fra 15 e 25 anni in moltissimi paesi e colpisce più i maschi che le femmine. La percentuale aumenta se si considerano alcuni comportamenti rischiosi come equivalenti di tentati suicidi: per esempio guida veloce ed in stato alterato, sport estremi praticati senza la preparazione necessaria, uso di droghe, disturbi alimentari ecc. Essi appaiono caratterizzati da un flirt con la morte, una sfida a misurarsi con essa. Sono situazioni pericolose che sono attivamente ricercate ed esibite, in cui il corpo è la mira degli attacchi. Ciò è spiegato dal fatto che nel periodo del ciclo vitale dell’adolescenza il corpo ha un posto specifico nel processo di sviluppo e la patologia si esprime attraverso il corpo stesso.

Quando si arriva al tentato suicidio nell’adolescente, siamo già nella fase diagnostica retrospettiva e dunque troppo avanti. Sappiamo che circa il 50% dei tentati suicidio sarà seguito da un altro tentativo nell’anno se non si interviene in qualche modo.

I giovani che hanno delle idee di suicidio non riconoscono facilmente le loro difficoltà e difficilmente accettano l’aiuto di un professionista. Pochi si rivolgono a strutture di cura.

Spesso l’entourage del giovane non si rende conto della gravità del problema perché in questa fase della vita la depressione, che è un quadro clinico comune a tutti quelli che tentano il suicidio, non emerge come apatia ma come irritabilità (c’è da specificare a questo proposito che la depressione e l’angoscia portano spesso al tentato suicidio perché il sistema difensivo è più debole, ma che la sola depressione non porta sempre al suicidio). In più il fatto che gli adulti tendono a idealizzare il periodo dell’adolescenza non aiuta nel riconoscere i segnali di pericolo.

Racamier dice che più il suicidio viene pensato come un andata-ritorno, più lo si tenta. E’ dunque paradossale, cioè significa “volevo morire per vivere diversamente o per rinascere” (ciò rimanda alla difficoltà di identità e di identificazione, problematica tipicamente adolescenziale. Il giovane si interroga sulla propria identità). I due criteri -intenzionalità e letalità- non contano. C’è una perdita di controllo che differenzia il suicidio dell’adolescente rispetto a quello dell’adulto, dove c’è intenzionalità (testamento redatto, affari organizzati prima del gesto…)

Può sembrare alle volte un gioco onnipotente: “-muoio per ritornare diverso, -muoio per mostrare che non ho bisogno dei genitori, -muoio per nascere perché ritornerò, -farsi male nel corpo per non soffrire più nella testa, come se fosse un tentativo per riprendere il controllo sul proprio corpo.

Un fattore determinante rispetto a questa problematica è la trasformazione del corpo nell’adolescenza. Inizia il processo di individuazione. La propria vita non appartiene più ai genitori. Così il tentato suicidio è un attacco al corpo genitorializzato: distruggere questo corpo che “appartiene” ai genitori per appropriarsi del proprio corpo con un fantasma di onnipotenza: “dalle mie ceneri rinascerà un corpo che mi appartiene”. Il corpo è allora oggetto di odio e non più fonte potenziale di piacere. E la domanda che si pone l’adolescente è: “voglio questa vita ? a chi appartiene questa vita ?” Il famoso “To be or not to be” di Shakespeare. L’appropriazione della propria vita richiede di porsi la domanda della scelta della vita. L’idea del suicidio permette di compensare l’idea dell’impotenza che assale l’adolescente. Ma è un conflitto che deve assolutamente rimanere nella testa, a livello psichico.

Quando però c’è troppa sofferenza, non gestibile mentalmente, c’è uno squilibrio nel paradosso e ciò porta al passaggio all’atto. E spesso al risveglio il paradosso sparisce e c’è allora una banalizzazione del gesto. “Non ci pensiamo più”. Si arriva al diniego del pensiero e si evita il conflitto (tutti buoni e gentili).

Un modo per uscire dall’impasse del suicidio è rianimare il conflitto stesso, perché il processo adolescenziale si definisce attraverso l’esistenza di un conflitto. Se non c’è il conflitto, rimane solo la morte.

Così la risposta più accettata che si può dare, in termini di aiuto, è quella psicologica. Dopo un tentato suicidio, è necessario proporre sempre una cura terapeutica che permetta questa rianimazione del conflitto, per poi sormontarlo affrontandolo. Cioè rianimare la psiche per rimetterla in moto. C’è altrimenti il rischio di porre fine allo sviluppo. Il trattamento deve poter restituire la scelta, l’autonomia della persona perché uccidersi è una non scelta.

Quale scopo dare al trattamento ? Freud, diceva che, in relazione all’analisi, bisogna arrivare al sicuro convincimento dell’esistenza dell’inconscio, portare l’adolescente al sicuro convincimento di disporre di un proprio apparato psichico attraverso il quale pian piano affrontare le angosce.

L’esperienza ginevrina, che si basa su un alto tasso di tentati suicidi, ritiene necessario un ricovero prolungato in un’unità specifica perché si sono resi conto che in questo modo i giovani accettano più facilmente i trattamenti mentre con un ricovero breve tendono a scappare. C’è bisogno di un contesto che possa contenere le angosce, dove rialzarsi; una sorta di “cura intensiva della psiche”. E come dice Aulagnier, “se la vita è un contratto, l’adolescente deve poter diventare un co-firmatario del contratto della propria vita”.

Dal punto di vista teorico, Ladame vede il suicidio come un passaggio all’atto in un individuo che, in quel momento, è su un registro psicotico. Il momento è puntuale e può durare anche solo pochi secondi o minuti. Per l’autore, il suicidio è un acting-out autodistruttivo che replica un trauma. Interessante è la sua ridefinizione dell’acting out (passaggio all’atto) che nella letteratura psicoanalitica viene considerato come un deficit di pensiero, un’assenza di rappresentazione. Anche se Ladame afferma: “Questo può essere vero in molti casi ma in altri è vero il contrario, vi è un eccesso di senso”.

Fenichel definisce il suicidio come “una forma particolare di ricordo”, caratterizzato da un’incompleta simbolizzazione che sostituirebbe o ritarderebbe l’azione. Pare funzionare utilizzando modalità estremamente arcaiche di risoluzione di problemi: le modalità preverbali. L’azione sarebbe il solo mezzo per venire a patti con un passato pressante e non assimilabile. Il trauma non è rappresentato attraverso un sintomo, simbolizzato in una condotta ma replicato con tutta la sua forza attraverso il passaggio all’atto. L’acting out è quindi una ripresentazione senso motoria del trauma, la trascrizione simbolica è carente o del tutto assente, comunque non è necessaria affinché, a questo livello, la ripetizione si compia. Ecco perché Ladame può definire il tentato suicidio come ricerca di unione narcisistica indifferenziata con l’oggetto in una relazione arcaica in cui oggetto e soggetto non sono ancora differenziati ma un tutt’uno onnipotente.

N. Peluffo (1991) ipotizza che alcuni comportamenti incomprensibili e perturbanti (tra cui possono essere inseriti gli acting out autodistruttivi) non si spiegano e non si esauriscono con l’analisi delle sole vicende ontogenetiche. Tali comportamenti hanno origine da un trauma ma, in alcuni casi, si tratta di situazioni traumatiche di origine filogenetica. Secondo l’autore l’impatto traumatico è stato di tal forza da non poter essere abreagito ed elaborato in una sola generazione. Sotto forma di tensione energetica, esso viene trasmesso alle generazioni successive, inserito nel destino individuale senza essere stato ontogeneticamente esperito. Ciò che si eredita è una configurazione vettoriale, una traccia energetica, una struttura pensionale che tende a replicarsi, riattualizzandosi.

Di questo trauma non vi è ricordo, né necessita di simbolizzazione: è solo una configurazione energetica che stimola, per esigenze di omeostasi, la ripetizione tramite il sogno e l’azione.

Peluffo chiama questa situazione perturbante “inesprimibile genealogico”. La micropsicoanalisi attraverso la sua metodologia e in particolare con l’uso di un particolare supporto tecnico, lo studio dell’albero genealogico, affronta l’inesprimibile genealogico. Lo studio degli antenati ed in particolare la scoperta e la presa di coscienza delle ripetizioni nelle varie generazioni dell’atto o degli atti incomprensibili e perturbanti, permette all’individuo di dare un significato al suo agire, di trarre dal passato un significato, un’elaborazione simbolica della sua pena. Tutto ciò legato al fatto che siamo in una problematica legata alle identificazioni.

L’autore parla di passaggio da processo primario a processo secondario; si può anche pensare ad un passaggio da rappresentazione di cosa (funzionamento percettivo motorio) a rappresentazione di parola (pensiero simbolico). A questo punto l’agire non è più necessario e la tendenza coatta all’acting out perde la sua forza.

Per concludere, vorrei ritornare all’opera di Shakespeare “Amleto” che rappresenta meglio di chiunque la problematica dell’adolescente in crisi. Amleto è alle prese con un conflitto interno che ha a che fare con il complesso di Edipo non risolto (la fantasia inconscia della morte del padre per poter sposare la madre che si realizza poi attraverso l’omicidio del padre da parte dello zio) che lo porterà a scegliere la morte. I fantasmi inconsci, che nel suo caso si avverano, diventano pericolosi. I sogni non possono più essere un rifugio perché si materializzano. Così Amleto si blocca: tutto lo riporta alla famiglia (deve vendicare il padre) e ciò gli impedisce di vedere fuori, di pensare alla propria vita (storia d’amore con Ofelia). Vediamo come allora il suicidio diventa la soluzione: la mia vita non mi appartiene, almeno la mia morte sì!

Fonte: Psicoterapia.it
Autore: Alexandra Ulmer

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