Considerazioni cliniche sul trauma e la dissociazione

In Psicologia Clinica by Centro PSY

Il trauma psichico e la dissociazione sono tematiche cliniche al centro di un rinnovato interesse sulle gravi conseguenze di esperienze traumatiche, nel determinare effetti patogeni sulla strutturazione della personalità. Una conseguenza clinica fondamentale di una esperienza traumatica, riguarda la perdita del senso interno di essere protagonisti attivi della costruzione del significato della propria vita. Nel trauma, l’esperienza dell’emozione è troppo forte da sopportare.

L’esperienza totale viene quindi smembrata. Gli eventi e i loro significati perdono connessione. Nei casi gravi quando il soggetto è vittima di un trauma precoce il risultato è: un mondo interiore in cui le emozioni arcaiche non sono verbalizzate e rimangono sconnesse dal significato personale. Un’esperienza traumatica, colpisce la stessa coesione della struttura mentale, che disorganizza e compromette la capacità di elaborare l’esperienza dolorosa. Non comunicare i propri vissuti emotivi non rende possibile l’instaurarsi di un legame significativo con l’altro.

Mi sembra interessante sottolineare l’impatto negativo del trauma sulla vita interiore dell’individuo, sulle relazioni tra Sé e l’altro, caratterizzate da un’assenza di significato soggettivo. Un punto di grande rilevanza riguarda il fatto che il soggetto che ha vissuto nell’infanzia traumi profondi di fronte al pericolo di una depersonalizzazione e di un crollo del Sé, utilizza rigide difese dissociative al fine di evitare la minaccia della ritraumatizzazione. Attraverso i processi difensivi dissociativi si cerca la sopravvivenza a spese dell’individuazione e dello sviluppo della personalità. La ricerca della sicurezza porta a quel processo dissociativo che Sullivan chiama “isolamento all’interno della personalità”che impedisce un pieno sviluppo del Sé. Il mio obiettivo in questo articolo, è dare rilievo all’esigenza di un processo psicoanalitico relazionale, basato sull’interazione terapeuta-paziente per una riorganizzazione del Sé; affinché gradualmente le esperienze traumatiche del paziente siano integrate attraverso un nuovo significato narrativo e vi sia la possibilità di iniziare a riempire i vuoti dissociativi con una effettiva funzione riflessiva.

Mi sembra interessante sottolineare la prospettiva psicoanalitica relazionale di Bromberg soprattutto per come l’autore intende l’esperienza terapeutica in relazione ai processi dissociativi. Secondo il modello interpersonale-relazionale di Bromberg il processo analitico va inteso come un evento negoziato intrinsecamente diadico che possa permettere al terapeuta di incontrare il paziente riconoscendolo nella sua autenticità. Come sostengono Aron, 1996, Mitchell, 2000, la negoziazione intersoggettiva attuata nel dialogo terapeutico apre la via alla fiducia in nuove possibilità interattive adatte a creare cambiamenti del funzionamento mentale.

Per Aron (2000), l’evento traumatico che non può essere vissuto in maniera riflessiva e non è dotato di significato attraverso un processamento cognitivo, porta inevitabilmente a non poter appropriarsi della propria esperienza e a non prendere coscienza dell’evento. L’autore si interessa particolarmente del trauma, della sua relazione con la dissociazione, il corpo e le sue psicomatosi. I pazienti, ad esempio, psicosomatici, traumatizzati, alessitimici, esprimono le emozioni attraverso il corpo con la conseguenza di somatizzazioni anche importanti. I lutti non elaborati, non raccontati, non sono metabolizzati e continuano a dimorare nel soggetto traumatizzato che prende le distanze da una realtà troppo insopportabile. Davies e Frawley (1991), si occupano di pazienti che hanno subito abuso sessuale nell’infanzia. Le autrici considerano il concetto di dissociazione come una modalità di organizzazione della mente che impedisce di rievocare il significato delle esperienze traumatiche vissute. Alla base di ogni quadro psicopatologico, Bromberg vede una dimensione traumatica che, attraverso la dissociazione limita la vita mentale nella capacità di riflettere, creando condizioni di incapacità di relazionarsi pienamente con gli altri.

La mente umana per affrontare il trauma dispone del meccanismo della dissociazione che Putnam (1992), ha chiamato “la fuga quando non c’è via di fuga “ (p. 104). Questo meccanismo nel negare ipnoticamente l’accesso alla consapevolezza preserva la sopravvivenza, allontanandoci dalla realtà quando essa diventa particolarmente insostenibile e dolorosa. Il concetto di “disturbo di personalità” potrebbe essere definito più vantaggiosamente come l’esito caratterologico di un uso eccessivo della dissociazione, e questo indipendentemente dal tipo di disturbo (narcisistico, schizoide, borderline, paranoide ecc); esso costituisce una struttura di personalità organizzata come una risposta proattiva e difensiva alla potenziale ripetizione del trauma infantile (Bromberg, 2007 p131).

La ripetuta esposizione all’angoscia traumatica che minaccia di distruggere la personalità umana, preclude lo spazio transizionale, distruggendo l’attività simbolica e l’immaginazione creativa e la sostituisce con quello che Winnicott chiama “fantasticare” (Winnicott1971b). La fantasticheria è uno stato dissociato, che usa l’immaginazione come difesa per evitare l’angoscia. Leonard Shengold (1989), offre una interessante trattazione di come i pazienti gravemente traumatizzati utilizzano l’autoipnosi come difesa contro l’angoscia insostenibile. Un trauma intenso può riguardare esperienze di deprivazioni e carenze affettive nell’infanzia che possono causare una sofferenza e un’angoscia psichica intollerabile. I terribili vissuti di un’infanzia infelice spesso non possono essere ricordati dall’individuo, né trasformati in esperienze integrali, per cui nelle fasi successive dell’esistenza non possono che essere coattivamente ripetuti. Così l’esperienza traumatica si accumula, formando quello che Khan (1963) ha definito “trauma cumulativo”, che rende il soggetto, in tutte le fasi successive dello sviluppo , particolarmente vulnerabile e indifeso nei confronti di ogni esperienza potenzialmente traumatica. Molti analisti, ad esempio Ferenczi, M. Balint, Sullivan hanno considerato l’eziologia della dissociazione grave connessa a una precoce storia traumatica. Secondo Sullivan (1953), i processi dissociativi hanno origine da una relazione disfunzionale con i genitori che disapprovano parti della personalità del bambino.

L’autore si interessa di quelle esperienze che provocano nel bambino e nell’adulto un’ansia così “severa” da creare un vuoto mentale, stati di confusione e un’amnesia relativa all’evento. Queste esperienze diventano tutte esperienze non-me, stati di dissociazione. In epoca attuale la qualità delle relazioni primarie e delle modalità di attaccamento costituiscono un aspetto significativo nella comprensione dei disturbi connessi all’uso della dissociazione. Bowlby con la sua teoria dell’attaccamento ha dato impulso a un cambiamento teorico nel passaggio da una concezione del trauma che tiene conto di componenti prevalentemente intrapsichiche al ruolo fondamentale dell’ambiente e delle relazioni del bambino con le figure di attaccamento. La teoria di Bowlby (1980), ipotizza la molteplicità funzionale e adattiva dei Modelli Operativi Interni. Come sottolinea Albasi (2003b), Bowlby, considerando la propria esperienza clinica, sembra elaborare l’idea che il bambino possa sviluppare Modelli Operativi Interni Dissociati (MOID). Albasi(2006), rileva che Bowlby assume una posizione teorica molto simile a quella di autori che hanno una prospettiva relazionale ad esempio Ferenczi, 1932a, 1932b; Sullivan, 1953, 1956; Bromberg, 1998b; Pizer, 1998), e teorizza la questione della mancanza, del vuoto, del deficit, che è un segno tipico del funzionamento dei MOID (p11). La strutturazione di modelli operativi interni dissociati (MOID), porta all’esclusione difensiva delle memorie autobiografiche di esperienze traumatiche. Va sottolineato l’influenza quindi delle prime esperienze di attaccamento che possono incidere negativamente sulla capacità di sviluppo della regolazione degli affetti e sull’evoluzione delle rappresentazioni di Sé e degli altri. Le ricerche dell’ Infant Research rilevano che la mancanza di riconoscimento della soggettività del bambino è una condizione che non consente la costruzione di processi mentali adatti a regolare gli affetti. In tal modo un disturbo nella sfera affettiva porterebbe a sperimentare emozioni primitive intense, soverchianti le capacità di contenimento della persona.

Fonagy e Target (2001), ritengono che la capacità di modulare gli stati affettivi e di saperli regolare siano capacità il cui sviluppo dipende dalle interazioni con menti più riflessive e disponibili affettivamente. Se prendiamo in considerazione ad esempio il caso di bambini maltrattati si può ipotizzare come rilevano Fonagy e Target (1991), che questi soggetti non riscontrando il proprio essere intenzionale nella mente del caregiver subiscono uno scarso sviluppo del processo di “mentalizzazione ” nell’incapacità di rappresentare gli stati mentali propri e altrui. I soggetti che hanno vissuto nell’infanzia esperienze traumatiche come: abusi fisici e psichici, lutti e genitori gravemente disturbati, si trovano a dovere affrontare situazioni affettive intollerabili perché non hanno avuto l’opportunità di costruire un mondo interno affidabile, non possedendo una rappresentazione degli oggetti da cui ricevere amore e fiducia. L’esempio più utile della gravità di queste situazioni interpersonali traumatizzanti vissute nell’infanzia è secondo Benjamin (1996), quello dell’adulto che presenta un disturbo borderline di personalità. Fonagy ha spiegato le particolari incompetenze metacomunicative riscontrate in pazienti con disturbo di personalità borderline.

I soggetti borderline, nei casi più gravi, non sono in grado di trattare e riconoscere se stessi o gli altri come motivati da stati mentali. (Fonagy, 1989, 1991; Ammaniti, Dazzi, 1999). Per la comprensione dei processi dissociativi, in relazione a situazioni traumatiche, in cui la regolazione dell’affetto non si è sviluppata in modo sufficiente, la teoria di Philip Bromberg si può ritenere un punto fondamentale di riferimento. Per Bromberg le esperienze traumatiche vissute nell’infanzia, non elaborate, rimangono nella psiche come “isole dissociate”. L’autore ha sviluppato una prospettiva clinica basata sul ruolo della dissociazione nel funzionamento sia normale sia patologico, e sulle sue implicazioni per la relazione terapeutica. Secondo il punto di vista relazionale di Bromberg, la dissociazione per sua natura non è intrinsecamente patologica poiché è una funzione normale della mente che esclude dal campo della coscienza stimoli dolorosi, come quelli di origine traumatica. La situazione traumatica rappresenta una minaccia per l’integrità dell’Io e l’esperienza di “essere se stessi”inizia a frammentarsi. La dissociazione proteggendo contro la frammentazione, consente ad un individuo l’accesso agli stati di consapevolezza incompatibili solamente come esperienze mentali discontinue e senza nesso sul piano cognitivo. In tal modo essa paradossalmente, dà alla persona la possibilità di mantenere il sentimento di coerenza, integrità del proprio senso del Sé e della propria continuità personale. La dissociazione viene utilizzata sia come processo mentale, cioè come difesa contro un’esperienza di affetti che la mente umana non può elaborare, sia come struttura mentale, una difesa contro il ripresentarsi del trauma (Bromberg, 2003a, 2004). Come difesa, la dissociazione diviene patologica nella misura in cui essa non permette di riflettere sui differenti stati della mente entro una singola esperienza di “identità”. In tal modo la dissociazione colpisce la vera e propria esperienza di Sé. Bromberg sottolinea che di fronte ad un forte trauma, la molteplice configurazione di stati del Sé, che permette ad una persona di “sentirsi uno in molti”, si trasforma in una rigida struttura mentale dissociativa.

Secondo la visione contemporanea della psicoanalisi relazionale, si ritiene che la psiche non nasce come un tutto integrato, non è unitaria fin dall’inizio. L’esperienza di essere un Sé unitario (Hermans et al., 1992; Mitchell, 1991), è un’illusione adattiva acquisita con la crescita. Al centro della teoria di Bromberg vi è una visione della mente come una molteplicità di stati del Sé che ha importanti implicazioni per il processo psicoterapeutico. L’azione terapeutica per essere efficace deve permettere l’incontro creativo tra le realtà multiple del paziente e del terapeuta per formare qualcosa di nuovo. Secondo l’orientamento psicoanalitico relazionale, il transfert non è solo una riattivazione di rappresentazioni arcaiche oggettuali, ma anche un processo relazionale all’interno del quale sono coinvolte, in una situazione dinamica, due menti quella dell’analista e quella del paziente. Bromberg mette in rilievo l’importanza del campo intersoggettivo della relazione con il proprio psicoterapeuta che può rappresentare la più grande risorsa di maturazione per il paziente traumatizzato. A mio parere, un aspetto importante dell’azione psicoterapeutica di Bromberg è aver dato rilievo ai contributi personali del terapeuta nel processo analitico. Il controtransfert diventa un elemento centrale dell’indagine per conoscere e riconoscere realmente il paziente “dall’interno”. Va sottolineato il cambiamento avvenuto negli ultimi anni, della comprensione psicoanalitica della mente umana e della natura dei processi mentali inconsci. La teoria relazionale si basa sul passaggio dall’idea classica, secondo la quale è la mente del paziente che viene studiata e in cui si pensa che la mente esista indipendentemente all’interno dei confini dell’individuo, alla nozione relazionale secondo la quale la mente è intrinsecamente diadica, interattiva e interpersonale.

Il modello dell’apparato psichico proposto da Bromberg, non si organizza in senso psicoanalitico classico, grazie all’opera della rimozione, ma sulla base di processi dissociativi. Infatti la prospettiva relazionale di Bromberg non concepisce un modello della mente caratterizzato da tre istanze (Conscio, Inconscio, Preconscio), ma organizzato da configurazioni di stati del Sé molteplici e discontinui, ciascuno con un proprio grado di accesso alla consapevolezza. La visione dell’inconscio presente nella teoria di Bromberg è differente dall’inconscio della teoria classica, luogo delle pulsioni libidiche e aggressive organizzate dai processi mentali al fine di non irrompere nella coscienza personale. L’idea della molteplicità del Sé caratterizza la visione di un inconscio relazionale organizzato in modo fluido intorno a molteplici configurazioni Sé-altro (Bromberg, 1998b), in una dialettica continua tra processi associativi e dissociativi. In tal modo non è la rimozione ma la dissociazione a rappresentare il processo difensivo determinante il funzionamento mentale. Secondo Bromberg, l’obiettivo della psicoanalisi non è tanto la ricostruzione del passato del paziente per mezzo delle interpretazioni dell’analista, ma la costruzione delle interconnessioni fra le multiple rappresentazioni del sé, tra la realtà interna ed esterna. Vi è uno spostamento dell’interesse dalla ricostruzione della storia personale del paziente, alle interazioni tra lui e il terapeuta. La psicoanalisi può essere vista come un’opportunità di crescita psicologica. Nella situazione analitica ciò che facilita la crescita del paziente è la possibilità di fare emergere stati regrediti di esperienza in un ambiente relazionale in cui il soggetto si senta abbastanza sicuro.

Bromberg pone attenzione all’importanza clinica della regressione terapeutica come un fattore centrale della cura e del cambiamento per entrare in contatto diretto con le parti dissociate della personalità che impediscono in casi di grave dissociazione un pieno senso del Sé. La psicoterapia si attua attraverso il processo dell’enactment che permette al paziente di esprimere il suo mondo interiore, le molte voci del Sé anche quelle dissociate che devono trovare la possibilità di rivelarsi. Il termine “enactment” si riferisce alla dimensione intrinseca al campo dei comuni affetti, pensieri e interazioni che comprendono la relazione analitica (Bromberg, 2000).Tramite il processo di enactment parti non-me possono essere riconosciute e l’esperienza del paziente non verbalizzata, inizierà ad essere elaborata cognitivamente. Il soggetto traumatizzato sviluppa un funzionamento mentale in cui aspetti del proprio passato sono memorizzati in modo dissociati, ciò vuol dire che la propria storia di dolore non può essere ricordata, ma può solo essere riprodotta attraverso l’enactment (Bromberg, 1998, 2004). Il terapeuta cerca un contatto con gli stati del paziente e nello stesso tempo di rimanere in contatto con i propri servendosi di metafore e simboli per esplorare ed evocare immagini delle esperienze traumatiche del paziente e nello stesso tempo esplorare i suoi stati e le sue specifiche reazioni. Gli esseri umani hanno bisogno di “stare tra gli spazi” tra le molteplici versioni della realtà in modo maggiormente flessibile (Bromberg 1998).

La metafora “stare tra gli spazi”, rappresenta l’essenza stessa dell’azione terapeutica un modo flessibile per creare la possibilità di integrazione tra affetto e pensiero, tra psiche e soma e stati del Sé precocemente isolati l’uno dall’altro attraverso un utilizzo patologico della dissociazione. (Bromberg 1998, 2003b). L’atteggiamento clinico nei confronti dei pazienti è quello di accogliere sia la loro dimensione sintomatica come ricerca di una regolazione affettiva fallita, sia le loro rappresentazioni di se stessi come molteplici versioni in tensione dialettica fra loro. Il processo analitico va considerato come “spazio potenziale”, così definito da Winnicott( 1971b), uno spazio potenziale per la co-costruzione mutua e creativa di significato multiplo che è negoziato. In epoca recente, sempre di più si incontrano pazienti, che lamentano una carenza della capacità di riflettere su di sé, una sensazione di pericolo imminente, un senso di estranietà delle proprie esperienze, relazioni nelle quali non riconoscono se stessi, un senso di non vitalità in alcune dimensioni di sé. Il processo psicoterapeutico richiede il passaggio dalla dissociazione alla crescente capacità di sostenere un’esperienza di conflitto interno che comporta un cambiamento nel riuscire ad adottare una posizione riflessiva. L’integrazione psicologica a cui si tende nel sentirsi uno in molti richiede un livello più maturo di elaborazione mentale, per mezzo dell’uso del pensiero e della risoluzione del conflitto intrapsichico portando allo scoperto emozioni incapsulate che non hanno ancora forma verbale I momenti di cambiamento si verificano quando viene “scongelata” l’esperienza traumatica per dar vita a una nuova narrativa che permetta modalità alternative di costruire relazioni intime significative.

L’individuo alla ricerca della propria vitalità può recuperare la propria soggettività facendo emergere dimensioni mentali implicite, poco integrate per trovare ordine nel caos della propria dimensione psichica. Un aspetto importante del ruolo dell’analista è quello di creare un ambiente terapeutico in cui sia costruita una realtà più inclusiva che consenta al paziente di accedere consapevolmente a sentimenti, pensieri, ricordi. Bromberg ci ha aiutati a comprendere che la via che porta alla crescita del paziente avviene attraverso l’esperienza di sorpresa che una nuova realtà possa sostituire quella traumatica ed emerga qualcosa di nuovo di inaspettato come un evento relazionale. Il processo terapeutico deve consentire il raggiungimento di un equilibrio tra stabilità e crescita delle rappresentazioni del Sé cioè il bisogno di sentirsi se stessi e nello stesso tempo il bisogno di costruire nuovi significati per una piena partecipazione ad una vita più autentica e creativa.

Fonte: Psicoterapia.it
Autore: Maria Rosaria Giuliano

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