Identità nazionale e stereotipi, oggi

In Psicologia Clinica by Centro PSY

Solitamente le persone sperimentano un legame affettivo con la terra in cui sono nate o in cui vivono, questo legame può essere più o meno intenso e può riferirsi a diversi ambiti territoriali: alcune si sentono più legate alle realtà territoriali più vicine, altre a contesti più generici (come possono essere quello nazionale o europeo). I diversi livelli di identificazione territoriale influenzano la costruzione della propria identità sociale, soprattutto nei soggetti in cui l’identificazione territoriale è un aspetto fondamentale della propria identità (non in tutti, poiché, per alcune persone tale identificazione può risultare secondaria o addirittura irrilevante). L’identificazione con un territorio è determinata dalla concorrenza di due elementi fondamentali, uno di carattere soggettivo: il sentimento di appartenenza al gruppo; l’altro di carattere oggettivo: la condivisione di uno spazio, di un passato comune, di una lingua, di abitudini, ecc.

L’individuo, quindi, così come svolge più ruoli e funzioni nella società, è in grado di avere contemporaneamente più identità. L’identità non può essere interpretata per categorie esclusive, bensì va definita in termini funzionali, in quanto esiste un cerchio concentrico di identità:
“in normali circostanze la maggior parte degli esseri umani può vivere felicemente con molteplici identificazioni e si diverte a muoversi tra queste a seconda delle circostanze” (Smith, 1992).
La costruzione dell’identità nazionale, infatti, è un fenomeno complesso in cui interagiscono moltissimi aspetti della vita sociale di un soggetto. Essa si determina gradualmente nel corso dello sviluppo e diventa parte integrante del nostro modo di essere . L’identità nazionale prima di tutto è una conseguenza del processo di categorizzazione, che ci permette di differenziare tra diversi gruppi di nazioni e acquisire i valori del proprio territorio e della cultura diffusavi. E’ quindi la distinzione del mondo in categorie a permetterci di distinguere tra patria e estero. L’identità nazionale deriva da una percezione di appartenenza e quest’appartenenza implica processi cognitivi, valutativi ed emozionali, sia a livello individuale che sociale: questa permette di identificarci con i tratti significativi riferiti ad una stessa popolazione, regola il comportamento dandoci la possibilità di distinguerci, di cambiare, senza perdere la continuità; tramite l’identità nazionale si condividono un insieme di credenze, rappresentazioni, valori e si determina un legame affettivo.

Le conseguenze del processo di categorizzazione, come l’homogeneity effect e l’ingroup bias, si affermano anche nelle distinzioni tra i diversi gruppi nazionali: la propria nazione sarà quindi percepita come più variegata al suo interno rispetto alle nazioni estere che saranno maggiormente stereotipizzate. Il nazionalismo deriva dal confronto intergruppi ed è una conseguenza del favoritismo verso l’ingroup; porta ad elevare la propria nazione sopra le altre, a giudicarla come superiore e a legittimarne la dominanza sugli altri gruppi. Ciò implica comportamenti di discriminazione e rifiuto.

Lo studio più esauriente sul tema dell’identità nazionale è di Smith (1992) che ricostruisce le radici del sentimento di appartenenza dei singoli individui nei confronti della loro nazione, nonché i possibili motivi della loro fedeltà ad essa. Smith definisce i cinque elementi costitutivi dell’identità nazionale, dotati di contenuti specifici per ogni contesto nazionale diverso e con un’influenza più o meno determinante a seconda delle situazioni in cui interagiscono: un territorio storico o patria; miti e memorie storiche comuni; una cultura pubblica di massa comune; diritti e doveri legali comuni per tutti i membri; un’economia comune e una mobilità territoriale.

L’autore ha sottolineato anche l’importanza delle esperienza simbolica dei valori. Un valore identitario fondamentale è determinato dalla memoria storica, che celebra le origini e il passato; un secondo elemento sono le norme di convivenza che regolano i rapporti fra i singoli e i gruppi, le istituzioni, la vita civile e religiosa; il terzo e più efficace è il linguaggio attraverso il quale i membri di una società comunicano tra loro; un altro dato è l’insieme dei rapporti di parentela e di stirpe; infine, l’ultimo elemento è il territorio in cui il gruppo vive.

L’identità nazionale derivando da tutti questi elementi è il frutto di un lungo processo che come non matura in un giorno, non può dissolversi in un attimo, né può essere pensata come qualcosa di intermittente o occasionale, può solo mutare nei secoli arricchendosi di alcuni valori e perdendone altri. Ogni popolazione è quindi ciò che la sua storia l’ha portata ad essere fino a quel momento, ma nel quadro di un insieme di altre popolazioni. L’Europa è in questo senso uno dei più fertili tra questi luoghi di creazione, in cui ha preso forma un insieme di popoli basato sia su un comune motivo ispiratore, sia articolato in una molteplicità di variazioni.

L’appartenenza ad una nazione è la forma più diffusa di identità collettiva della modernità e come ogni altra identità, anche l’identità nazionale si forma intorno ad un nocciolo ineliminabile di ambivalenza e di principi contraddittori. L’idea di nazione non potrà mai trascendere completamente da quella di etnicità poiché questa riemerge frequentemente esprimendo i suoi sentimenti comunitari repressi. Oggi, quindi, l’identità nazionale si trova al centro tra le identità regionali che continuano a far sentire la propria voce e un’identità europea che cerca di mettere radici; e il fatto che, si parli sia di un’identità europea, che nazionale o regionale, afferma di per sé, che non viviamo nell’illusione che l’identità sia una e indivisibile: ogni identità non può che essere una componente di una poli-identità, qualsiasi identità è una “unitas multiplex”.

Nella nostra società post-industriale le identità sono assai complesse, continuamente ridefinite, è frutto di combinazioni non solo di identità locali, nazionali e transnazionali, ma anche di identità familiari, religiose etc. Usufruendo del modello di Brewer (1991) possiamo rappresentare l’identità regionale, nazionale e sovranazionale come un insieme di cerchi concentrici, e il significato associato ad ogni livello è del tutto soggettivo e non sempre i diversi livelli di identificazione risultano conciliabili. Nella nostra storia si alternano momenti di calma, in cui prevalgono identità indiscusse (prive però di una reale vitalità) e momenti in cui gli incontri tra le diverse identità possono far soffrire o provocare addirittura gravi scontri, ma possono portare anche positive ondate di creatività ed energia.

Nel contesto politico di questi ultimi anni, in graduale cambiamento, in cui scompaiono le frontiere, è interessante studiare come si modificano la percezione delle identità, infatti man mano che l’entità europea si fa più concreta e stabile, le identità nazionali e regionali si modificano per cercare un nuovo equilibrio.

Ha affermato Rusconi: “Soltanto una nazione democratica sicura delle proprie radici e ragioni storiche, pratica forme di auto-governo regionale senza sentire il bisogno di disconoscere l’appartenenza storica comune. Non c’è affatto incompatibilità tra autonomie regionali e un forte senso di appartenenza nazionale. Entrambe sono segni di cittadinanza matura”. E’ dunque evidente che un’unione europea può prendere forma solo a partire da nazioni abbastanza sicure di sé da saper decidere di trasferire una parte delle loro competenze a livello europeo. L’unità europea si presenta come una realtà concretamente perseguibile quanto più l’identità nazionale non è minacciata da frammentazioni interne che ne ostacolano l’espressione.

Quindi, l’Europa delle nazioni non si trova in conflitto con il progetto di Unione Europea. Il rafforzarsi dell’identità europea, così come il riconoscimento delle identità delle diverse culture, richiede il rafforzarsi, non l’indebolirsi delle identità.

La relazione positiva tra identità europea e identità nazionale non è sempre scontata: non sempre un individuo si definirà italiano e europeo allo stesso tempo; in alcuni frangenti è possibile vi sia una scarsa identificazione del soggetto con l’Italia, compensata da una forte identificazione con l’Europa o viceversa in altre si affermerà una forte identificazione con la propria nazione a discapito dell’identità europea (questa reazione di chiusura in particolare può essere determinata dal timore di perdere la propria specificità).

E’ evidente che non esiste, per ora, un’ Europa dotata di un’identità collettiva che assolva agli stessi compiti di ancoraggio per i cittadini europei, cui assolve l’identità nazionale. Le caratteristiche nazionali sono così radicate nelle identità dei diversi popoli da essere difficilmente superabili dall’ideale di unificazione delle popolazioni europee. Le identificazioni nazionali sono molto più antiche e diffuse rispetto a un’ identità europea ancora assai debole, sprovvista di sostegni storici e culturali radicati nel sentimento popolare. Anzi, in un momento storico in cui le stesse nazioni vengono rimesse in discussione, in quanto troppo lontane e distaccate dai sentimenti di appartenenza suscitati dalle appartenenze etniche da cui esse sono composte, appare molto improbabile il formarsi di una nuova coscienza europea che accomuni tutti gli innumerevoli gruppi etnici stanziati sul continente europeo.

Analizzando il caso specifico della nostra Nazione, va sottolineato il fatto che molti fra gli aspetti peculiari dell’Italia e della sua popolazione derivano dai caratteri geografici unici del nostro paese. L’Italia si distingue per la sua centralità nel continente europeo, infatti è il tramite tra la penisola balcanica e quella franco-iberica, ed arriva a breve distanza dall’Africa. L’Italia, quindi, per ragioni naturali, è stata predisposta a divenire terreno d’incontro elettivo di influssi ed esperienze culturali. E ancora, l’articolata frammentazione morfologica del paesaggio italiano ha determinato la frammentazione dei tanti gruppi sociali e delle tante società della penisola, e ha favorito l’arricchimento e la dialettica culturale.

Le varie frammentazioni e il fatto che l’Italia non abbia mai avuto la fortuna di essere occupata per intero da un medesimo invasore ha determinato rilevanti problemi per un’identità che si voglia effettivamente una; ed è solo grazie all’essere stata a suo tempo la culla della latinità e la sede storica del cristianesimo se l’Italia è riuscita a tener sottocontrollo le oggettive spinte disgreganti con cui la sua realtà geografica e la sua storia la ponevano a contatto costruendo e conservando un nome, un’immagine, un senso di sé come di un sostanziale tutto. Questi due fattori (essere la sede dell’Impero Romano e del cristianesimo) erano gli unici tratti effettivamente comuni all’intera umanità italiana, l’unico aspetto unificante, l’unico elemento davvero “italiano”. Ma per effetto di ciò, l’Italia ha acquistato per sempre un posto centrale nella civiltà dell’Europa. Questo ruolo centrale è stato però assolutamente sproporzionato rispetto alle dimensioni e alle risorse effettive di cui la penisola può disporre. La realtà impediva e impedisce all’Italia di poter sperare di essere davvero all’altezza del suo passato. Inoltre, lo Stato e le istituzioni sono rimaste qualcosa di estraneo, di calato dall’alto, e quindi i tratti più spiccati della nostra identità sono legati alle appartenenze circoscritte, al gruppo, al clan, alla fazione (Galli della Loggia, 1998).

Questa condizione di mancata unità ha avuto un’importanza enorme nel fondare l’identità dell’Italia; divisione, inerenza straniera e ruolo del Papato si erano saldati all’immagine complessiva dell’Italia. Non meraviglia che, specialmente ad occhi non italiani, il nostro sia apparso un paese che non esiste, un’identità che non c’è perché al suo posto ce ne sono tante.

La fragile costruzione statale unitaria ha determinato il debole sentimento nazionale italiano, cioè lo scarso sentimento che gli italiani hanno di essere una nazione e le poche circostanze in cui dimostrano di esserlo davvero. La cultura italiana ha fornito quasi sempre un’immagine dell’identità del paese come di due nazioni tra loro incompatibili: l’una abitata da italiani “buoni”, l’altra da italiani “cattivi” (la maggioranza, che sono dipinti come la pesante zavorra che è sempre di ostacola a chi vorrebbe agire per il meglio). A causa di ciò si è rivelato difficile costruire un’immagine condivisa del passato italiano, dedurre un’idea in qualche modo unitaria del Paese e dargli consapevolezza e sicurezza di sé. Sul Paese si esprime sempre un giudizio spietatamente pessimistico, i pur ragguardevoli traguardi raggiunti dall’Italia negli ultimi decenni non sono stati assunti come motivo di orgoglio nazionale, né come motivo per la costruzione di una salda identità nazionale.

Ci sono tante “Italie”, questo è certamente uno dei tratti essenziali dell’identità italiana, ma è pur vero che esiste un’Italia, una realtà e un’idea unica del nostro Paese, che tiene insieme e comprende tutte le altre; nonostante la storia abbia prodotto la molteplice diversità, ne ha determinato anche l’amalgama. Non c’è parte di Italia che non abbia avuto rapporti con altre parti vicine e lontane della penisola. E’ proprio grazie a questa straordinaria struttura di reti, tipica dell’identità italiana, che ogni parte è parte di tutte le altre e con esse interagisce, e fa di tale identità qualcosa di difficilmente definibile, ma non per questo meno riconoscibile: l’Italia non può essere confusa con nient’altro.

La questione dei caratteri nazionali appare per noi certamente interessante sia per motivi di ordine teorico sia in rapporto alle concrete difficoltà di relazione che possono sorgere fra appartenenti a nazioni diverse e ciò in modo particolare con riferimento ai processi di integrazione europea in atto. Non solo gli individui, ma anche le collettività, e tra queste gli stati-nazione, entrano in relazione tra loro attraverso delle etichette che permettono di identificare in modo sintetico e immediato caratteristiche e aspettative comportamentali delle diverse nazioni.

Le evidenze empiriche nel campo dell’influenza sociale hanno più volte messo in luce l’importanza delle credenze socialmente condivise nella strutturazione delle credenze personali. Gli stereotipi, intesi come rappresentazioni astratte, relativi a gruppi estranei, non si sottraggono a tali processi di influenza. In particolare, è stato dimostrato che i membri di un gruppo sono disposti a modificare le proprie credenze personali al fine di renderle conformi al punto di vista consensualmente condiviso.

Come l’identità nazionale è determinata sia da fattori oggettivi che da fattori soggettivi, così i fattori oggettivi dell’appartenenza a un territorio determinano il contenuto degli stereotipi associato a quel territorio e ai suoi abitanti, mentre i fattori soggettivi influenzano la componente valutativa di tale appartenenza.

Gli stereotipi riferiti ad una nazione pongono le basi sia su fattori stabili (relativi alle condizioni economiche, politiche, geografiche, culturali della nazione), sia su fattori dinamici, determinati dal contesto comparativo.

Il contenuto degli stereotipi varia in base all’outgroup con cui si opera il confronto, il tipo di confronto attuato influenza il contenuto degli stereotipi rendendo più salienti alcuni attributi rispetto ad altri. Ma gli stereotipi esistono e resistono anche in assenza di un outgroup di riferimento.

Negli scorsi decenni si sono susseguite varie ipotesi monofattoriali circa il formarsi del contenuto degli stereotipi: un’ ipotesi centrata su fattori strutturali (i ruoli sociali e lo stile di vita del gruppo sono associati a caratteristiche specifiche attribuite a tutti i membri del gruppo) (Campbell, 1967; Levine e Campbell, 1972); un’ipotesi centrata su fattori culturali (Eagly e Kite ritengono che gi stereotipi nazionali sono determinati dalla percezione diffusa e condivisa delle figure pubbliche di tale Paese)(Eagly e Kite, 1987); un’ipotesi centrata su determinanti non sociali, come i fattori climatici e geografici (Von Ehrenfels sosteneva che il contenuto degli stereotipi si caratterizzi sulla base di una polarizzazione nord-sud: gli abitanti del nord sono percepiti come più lavoratori e asociali rispetto a quelli del sud, i quali risultano invece più calmi e emotivi).

Ipotesi più recenti, come quelle di Linssen e Hagendoorn (1994) ritengono che alla formazione del contenuto degli stereotipi nazionali concorrono più fattori (di natura non solo sociale), quali l’efficienza (che dipende dallo sviluppo economico del Paese e dai servizi offerti dal governo), l’emozionalità (che dipende dalla dimensione della nazione e del suo peso politico), l’empatia (che dipende non solo dalla dimensione e dal peso politico della nazione, ma anche dal grado di nazionalismo dimostrato).

E’ importante sottolineare che esiste un consenso tra gli abitanti dei vari Paesi nell’attribuzione di determinati tratti ad una data nazione, ma anche che da una ricerca di Hopkins, Regan e Abel del 1997 emerge che i tratti stereotipici assegnati all’ingroup variano notevolmente al variare dei contesti di giudizio; il loro contenuto, quindi, non è assoluto ma relativo, relazionale.

Nonostante ci si avvii sempre di più verso l’integrazione europea e nonostante il ruolo unificante in termini di messaggio che svolge la televisione, l’analisi dell’universo fantastico di Italia, Francia, Gran Bretagna, Germania, ha mostrato che gli stereotipi nazionali non si sono stemperati e affievoliti in un’indistinta immagine europea e occidentale. Il villaggio globale è abitato da collettività che vengono definite e si autodefiniscono in base a clichés radicati nella rappresentazione fantastica fin dai tempi dei miti e il grande specchio televisivo ha più il ruolo di riprodurli e renderli noti, che di annullarli (Montanari, 2002).

Ne derivano quindi descrizioni sommarie delle singole nazionalità che sono tra i migliori esempi di stereotipi, come l’insieme di credenze, spesso anche se non sempre negative, circa le caratteristiche degli appartenenti a un determinato gruppo (in questo caso definito in relazione alla nazione). I contenuti degli stereotipi nazionali sono decisamente noti: i tedeschi rigidi e ostinati, conformisti e deferenti verso l’autorità, amanti dell’ordine e dell’efficienza, sensibili alle ragioni del collettivo più che a quelle dell’individuo; gli inglesi riservati e controllati, formali, dotati di senso pratico e di humour, ma privi di calore umano, attenti alle regole, individualisti e competitivi; i francesi insofferenti all’autorità, narcisisti e arroganti, dotati di senso estetico, interessati ala speculazione teorica più che all’esperienza, liberi nell’espressione delle emozioni; gli americani informali e spontanei, ingenui e poco creativi, di grande competenza tecnica, conformisti subordinati, interessati ai valori dell’uguaglianza ma anche molto competitivi; gli italiani fantasiosi e simpatici, orientati alla comunità particolare (soprattutto la famiglia) più che al collettivo sociale, incostanti e superficiali, spontanei e sinceri, preoccupati più delle apparenze che della sostanza.

I due principali stereotipi relativi al modo di essere degli italiani che ci vengono più frequentemente rimandati dallo sguardo dell’osservatore straniero e al tempo stesso da una lunga tradizione di autocoscienza nazionale, sono l’individualismo, insieme a un radicato familismo. L’italiano è un individualista (espressione ovvia dell’immediatezza e della spontaneità) ma allo stesso tempo amante del gruppo chiuso (della famiglia, del ceto, della corporazione) dominato da regole antiche (formalismi ed etichette) (Galli della Loggia, 1998).

Queste generalizzazioni possono essere false, ma non per questo ininfluenti o neutre, poiché condizionano i nostri comportamenti. Essi hanno finito per determinare quello che correntemente chiamiamo il “carattere nazionale” ovvero una specie di stampo a cui ricorrere nei momenti di crisi e da utilizzare come base. Se possiamo ritenere che sia un errore rapportarsi a una persona di un’altra nazionalità senza tener conto delle sue specifiche caratteristiche di individuo e attribuendogli invece le caratteristiche che si ritengono tipiche del suo gruppo nazionale, è altrettanto indubitabile che spesso c’è davvero un’alta probabilità di ritrovare nel nostro interlocutore almeno alcuni dei tratti tipici del suo carattere nazionale, e che dunque lo stereotipo può funzionare, in assenza di altre informazioni, come un efficace strumento di previsione e di orientamento dell’azione.

Tutto ciò perché i contenuti degli stereotipi nazionali non sono del tutto arbitrari, né creati ad arte dagli avversari e dagli stranieri, ma esprimono delle tendenze che sono in certa misura reali che derivano da complesse sedimentazioni di tipo storico e culturale. Infatti, la famiglia rappresenta il massimo spazio vocazionale dell’agire collettivo italiano, se devono muoversi insieme ad altri, gli italiani preferiscono farlo nell’ambito familiare o in un gruppo ristretto che ricorda la famiglia. In questa dimensione essi danno il meglio di sé, trovandosi nell’equilibrio più congeniale tra il principio gerarchico da un lato e la preservazione dell’individualità dall’altra. Sembra esservi nella società italiana una riluttanza, fortemente introiettata dalla mentalità collettiva, ad accettare come vincolante tutto ciò che non sia nell’orizzonte di vita degli individui, nei loro legami e nei loro bisogni. In conseguenza di ciò l’Italia sarà una “terra di individui” come poche altre, individui che avranno grosse difficoltà ad essere cittadini, cioè a conquistare quella dimensione essenziale della modernità, fatta di uguaglianza delle opportunità, di libera contesa delle opinioni e di dipendenza dalla stima disinteressata altrui.

Dunque il problema è il confine fra lo stereotipo come utile strumento di previsione e controllo della realtà e lo stereotipo quale distorsione della conoscenza e ostacolo all’interazione, il problema sta nell’esasperazione di due caratteristiche tipiche dello stereotipo stesso, vale a dire la generalizzazione e la rigidità. Comunque un certo livello di generalizzazione consente, in assenza di altre informazioni, di formulare delle previsioni; un livello eccessivo impedisce di cogliere le sfumature individuali, o magari la totale non corrispondenza dell’individuo reale ai tratti tipici dello stereotipo; un minimo di coerenza e stabilità sono indispensabili perché lo stereotipo sia utile all’interpretazione degli altri; un livello eccessivo esclude la comprensione delle infinite articolazioni che i diversi tratti possono avere nelle diverse situazioni e impedisce sia di cogliere le trasformazioni che l’insieme dei tratti possono avere nelle diverse situazioni sia di cogliere le trasformazioni che l’insieme dei tratti subisce nel corso del tempo.

Il cuore della questione sta nel concetto di probabilità in quanto distinto da quello di legame causale necessario: possiamo dire infatti che esiste una maggiore probabilità che un individuo appartenente a un gruppo possieda i tratti che sono tipici del suo gruppo. Come in ogni situazione fondata sul concetto di probabilità, se nel complesso è più facile trovare un inglese freddo e un italiano espansivo, sarà sempre possibile trovare, sia pure con minore frequenza, qualche italiano che sia più freddo di un inglese e viceversa.

La relativa omogeneità dei caratteri nazionali (sia in quanto percezione sedimentata negli stereotipi sia per quello che vi si può trovare di corrispondente al vero) rinvia necessariamente l’analisi alla forza dei processi di socializzazione (nella famiglia, nella scuola, nei mass media) che producono e riproducono la cultura. Inoltre invita, anche, a riflettere sul delicato processo di causazione reciproca fra individuo e contesto culturale: una certa cultura plasma individui simili che riproducono una cultura e una società di un certo tipo. E’ facile individuare, ad esempio, dietro alcuni tratti del carattere anglosassone, l’influenza congiunta dell’etica protestante e delle filosofie empiriste; così come si possono intravedere sfumature di razionalismo alla base dei caratteri tedesco e francese (Mazzara, 1997).

E’ evidente che non possiamo intendere la conoscenza del mondo e dell’altro in termini oggettivi, ma solamente relazionali, in base ai quali chiunque percepisce l’altro all’interno di un proprio mondo di esperienze. Così l’universo reale finisce, paradossalmente, per essere costruito a partire da quello immaginario, a cui si ispirano le azioni dei singoli e le norme di comportamento che appaiono più adeguate a quello specifico universo di conoscenze in un processo speculare e circolare per cui l’immaginario si rifà alla realtà, come la realtà all’immaginario.

Infine è giusto sottolineare le difficoltà che possono sorgere nell’aspetto pratico, ovvero nel rapporto fra appartenenti a gruppi nazionali diversi, in base proprio a questa idea di contrasto su criteri fondamentali della vita. E’ evidente infatti che laddove si consideri l’altro come espressione di una cultura che si percepisce come antitetica alla propria si sarà meno disponibili a un confronto costruttivo e l’interazione risulterà ostacolata da un’ostilità di fondo. Tale atteggiamento si acuisce nel caso di ampie differenze e, dunque, quando si tratta di culture e nazioni tra loro molto distanti, come avviene per esempio nel caso degli immigrati da paesi africani; ma, ciò può avvenire anche nel confronto fra culture molto simili, condizione che può innescare un bisogno di differenziarsi: è il caso, ad esempio, della storica ostilità fra i “cugini” italiani e francesi; ed è dato comune in molte situazioni di confine fra gli stati, nelle quali sottogruppi di popolazione per molti aspetti identici tendono ad esaltare le differenze reciproche.

Fonte: Psicoterapia.it
Autore: Irene Dinoto

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