Adolescenti e immigrazione: processi di acculturazione

In Psicologia Clinica, Psicologia Clinica Famiglia by Centro PSY

Gli spostamenti di popoli per terre e mari hanno caratterizzato la storia umana per migliaia di anni: migrazioni di vasta portata, locali, di massa o di singole famiglie. L’immigrazione è un fenomeno che in qualche misura è sempre esistito. Basti ricordare le migrazioni bibliche verso e dall’Egitto e quelle che sono state chiamate invasioni barbariche. Nei tempi moderni si sono succedute periodicamente verso l’America e poi all’interno dell’Europa alla ricerca di lavoro.

Attualmente, in Italia, la portata di questo fenomeno sta aumentando a vista d’occhio, basti pensare che si contano 2,5 milioni di immigrati: 4 ogni 100 italiani (Caritas, 2004). La migrazione è un evento che si è manifestato, in modo più evidente, soprattutto negli ultimi 50 anni. Solo per dare un’informazione, circa cinquanta milioni di persone sono emigrate oltre i confini germanici dal 1952 al 1995 (Zagefka H. & Brown R., 2002).

Nel momento in cui sono degli adolescenti i protagonisti di questo evento, per chi studia il fenomeno immigrazione è importante capire e individuare i fattori protettivi e i probabili agenti di rischio legati all’esperienza migratoria e al processo di adattamento nella società di accoglienza. L’adolescenza, già di per sé, è una fase molto delicata dello sviluppo individuale, poiché comporta oltre a cambiamenti fisici e psichici, la transizione dall’età infantile a quella adulta. Generalmente, la società e la cultura d’origine assicurano un senso di stabilità all’adolescente, supporto che viene meno agli adolescenti immigrati i quali, sospesi tra culture diverse, hanno molti impedimenti nel mantenere la stabilità emotiva (Schimmenti, 2001).

Pensiamo al rapporto tra individuo, cultura d’origine e cultura d’accoglienza. E’ fra queste polarità che si gioca lo sviluppo adolescenziale dei giovani immigrati, i quali, rispetto ai loro coetanei autoctoni, seguono un percorso di crescita, sicuramente, più arduo, perché devono affrontare positivamente la “doppia transizione”, ovvero tanto il passaggio verso l’età adulta, quanto quello verso la società d’accoglienza. Quali fattori di protezione e quali risorse li difenderanno dalla possibilità che si sviluppino percorsi a rischio sia dal punto di vista psicopatologico che da quello deviante? Quanto la propria cultura incide nell’affrontare questa “doppia transizione”? In effetti, sembra che vi siano “adolescenze diverse”, poiché per alcuni giovani stranieri il proprio percorso di crescita è già segnato: alcuni assumono presto un atteggiamento deviante a causa delle difficoltà d’acculturazione che incontrano nel paese ospitante e per l’influenza esercitata dalla propria cultura.

Inoltre, i ragazzi immigrati, a volte, non possono contare sul sostegno dei propri genitori, sebbene si trovino insieme a loro nel nuovo contesto multiculturale. Infatti, spesso, succede che le generazioni più adulte dipendano da quelle più giovani per la competenza linguistica del nuovo contesto culturale; oppure accade che si verifichi uno scontro culturale fra i genitori, che mirano a mantenere le proprie tradizioni originarie, e i figli, che, invece, sono inclini ad assumere atteggiamenti ed usanze dei gruppi di pari del paese ospitante (Liebkind, 1998). In tal caso, il diverso accostamento di genitori e figli alla nuova cultura, rende più difficile nei giovani immigrati il processo di co-individuazione (Malagoli Togliatti e Ardone, 1993), cioè il distanziamento fisiologico tra le generazioni, così come la ricerca e lo sviluppo adeguato della propria identità personale e sociale.

Prima di spiegare tali questioni, vorrei rendere espliciti gli aspetti che caratterizzano il fenomeno immigrazione.

Inevitabilmente, tale diffuso spostamento di persone implica che differenti gruppi entrino in contatto fra di loro, come gli immigrati e la società ospitante. Questo contatto determina il processo d’acculturazione, che “comprende quei fenomeni che si verificano quando gruppi di persone con culture diverse vengono in contatto continuo e diretto, con conseguenti cambiamenti nella configurazione culturale originaria di uno o di entrambi i gruppi” (Redfield et al., 1936, pp. 149-152). I cambiamenti avvengono tanto a livello individuale (identità, valori, atteggiamenti), quanto a livello di gruppo in relazione alla sfera sociale (economia o organizzazione politica).

Ogni individuo subisce in maniera differente l’influenza dell’acculturazione ed è coinvolto diversamente dal suddetto fenomeno, a causa dell’azione e delle correlazioni esistenti fra differenti variabili come il livello d’istruzione, la possibilità di lavoro, il grado di partecipazione politica, la competenza nella lingua del paese ospitante, la credenza religiosa e altre.

In particolare, il processo di acculturazione coinvolge due culture, ossia il “gruppo dominante” e il “gruppo acculturante”, che si influenzano reciprocamente. Nel momento in cui uno dei due gruppi vuole relazionarsi all’altro fa una scelta fra quattro diverse possibilità, dette strategie di acculturazione, che derivano dalla combinazione di due dimensioni, cioè la voglia di mantenere la propria cultura e il desiderio di entrare in contatto con i membri della società ospitante (Berry et al., 1989).

Le strategie, che possono essere adottate dagli immigrati, sono:
1. assimilazione, cioè per il soggetto è più importante avere rapporti con gli altri gruppi che mantenere la propria identità culturale e la propria tradizione;
2. separazione, ovvero l’individuo rifiuta ed esclude il contatto con le altre culture, limitandosi alla propria;
3. integrazione, con la quale l’immigrato vuole mantenere e conservare la propria identità culturale con tutte le sue caratteristiche, senza privarsi di entrare in contatto con gruppi culturali diversi;
4. emarginazione, in cui l’immigrato mostra disinteresse sia a mantenere la propria cultura che ad interagire con altre.
La scelta strategica, comunque, può cambiare durante il corso dell’acculturazione (un soggetto prima può preferire l’assimilazione e, poi, l’integrazione), anche in base alla sfera sociale interessata (per esempio, un individuo adotta l’assimilazione nell’ambito lavorativo e l’integrazione in altri contesti, ad esempio attraverso l’uso del bilinguismo).

Recentemente, è stata evidenziata anche l’importanza dell’atteggiamento assunto dalla società dominante, poiché la sua scelta strategica influisce sul risultato del processo di acculturazione. Così come il “gruppo acculturante”, anche il “gruppo dominante”, difatti, può scegliere di adottare una delle quattro strategie durante il processo di acculturazione. Esse sono:
1. assimilazione;
2. segregazione, che corrisponde a separazione;
3. integrazione;
4. esclusione, che equivale a emarginazione nel modello di Berry (Bourhis et al., 1997).
Secondo il Modello Interattivo di Acculturazione (IAM) di Bourhis (1997), il risultato del fenomeno di acculturazione e le relazioni tra gli immigrati e la società dominante si possono predire osservando il fit tra le strategie scelte da entrambi i gruppi. Lo IAM, infatti, distingue tre diverse tipologie di fit: consensuale, problematico e conflittuale. In particolare, il fit consensuale si verifica qualora entrambe le etnie scelgono l’integrazione, il fit conflittuale, invece, emerge nel momento in cui, ad esempio, gli immigrati preferiscono l’integrazione, mentre la società ospitante predilige l’esclusione. Generalmente, il modello suggerisce che il livello consensuale, che si raggiunge solo nei casi in cui entrambi i gruppi optano per la strategia d’integrazione o di assimilazione, determina basso grado di stress di acculturazione, scarsa discriminazione, poca tensione inter-gruppo, atteggiamenti inter-etnici positivi ed esigui stereotipi negativi.

Molti sono gli studi che documentano l’esistenza di una forte propensione da parte degli immigrati a favore dell’integrazione, definita la migliore strategia di adattamento (Berry et al., 1987), poiché aiuta i migranti a differenziarsi positivamente dalla cultura di maggioranza con la quale, nello stesso tempo, condividono un’identità comune.

L’integrazione, dunque, appare la modalità che, rispetto alle altre, apporta più equilibrio tra la cultura originaria di un popolo e la nuova cultura con cui questi si deve relazionare.

Tornando al concetto di acculturazione, Berry (1989) spiega che tale fenomeno può essere definito un processo multilineare, in quanto può avere differenti mete e può condurre a diversi esiti. Inoltre, l’autore spiega che possono aver luogo mutamenti di comportamento come risultato dell’acculturazione. In letteratura, si può trovare una distinzione tra due tipi di effetto: la prima è collegata ai cosiddetti “spostamenti comportamentali”, caratterizzati da un mutamento quantitativo (è il caso dell’immigrato che ha trovato un lavoro che gli consente di guadagnare di più rispetto a prima); la seconda si riferisce a nuovi fenomeni che accompagnano l’acculturazione, i quali sembrano risultare da conflitti psicologici e da disgregazioni sociali, come aumento degli omicidi, violenze sessuali o declino dello stato di salute mentale; questo tipo di conseguenze è denominato stress di acculturazione. Quest’ultimo, a differenza del primo esito, rappresenta un adattamento negativo al processo di acculturazione, infatti, implica una diminuzione dello stato di salute mentale (depressione, ansia ecc.), sentimenti di emarginazione, confusione d’identità, vari sintomi psicosomatici, oltre che fenomeni di disgregazione sociale.

La manifestazione o meno dello stress di acculturazione dipende da diversi fattori che moderano il rapporto tra acculturazione e stress. Essi corrispondono alla modalità di acculturazione assunta dall’immigrato (integrazione, emarginazione, assimilazione o separazione), alle caratteristiche del gruppo acculturante (età, status, sostegno sociale), agli aspetti dell’individuo in via di acculturazione (atteggiamenti nei confronti del fenomeno migratorio, valutazione di sé), oppure alla natura della società più grande (multiculturale o basata sul pregiudizio e la discriminazione). Berry e altri (1987) spiegano che i meno stressati sono coloro che mirano all’integrazione ed, inoltre, indicano che è rilevante il tipo di insediamento culturale del gruppo (per esempio, i nomadi sono soggetti ad uno stress maggiore nel momento in cui devono vivere in una comunità in cui vigono delle regole e il ritmo di vita è più sedentario).

Un’altro fattore di stress è rappresentato dal quadro politico, ovvero dalla possibilità reale che si concede agli extra-comunitari di partecipare alla vita sociale (diritti politici, cure mediche, abitazione). Allo stato attuale, risulta complicato trovare una nazione che sia omogenea dal punto di vista culturale, poiché la maggior parte di esse è costituita da più gruppi culturali che interagiscono diversamente.

E’ stato riscontrato che proprio nelle società pluralistiche gli immigrati tendono ad un livello minore di stress rispetto a coloro i quali vivono, invece, in una società monoculturale. Ciò avviene per due ragioni che caratterizzano le società pluralistiche: 1) “l’ideologia multiculturale”, ovvero la disponibilità verso altri popoli (Berry, 1997); 2) il desiderio di offrire aiuto e sostegno a coloro i quali esperiscono il processo di acculturazione.

E’ utile, a tal punto, operare una distinzione fra la società pluralistica multiculturale e la società pluralistica che non sceglie l’integrazione. La prima è quella comunità in cui vengono accettate e valorizzate le differenze, soprattutto attraverso politiche esplicitamente a favore del pluralismo (le cosiddette “politiche di multiculturalismo”, attualmente esistenti in Canada, Australia e Svezia); la seconda società è quella, invece, che mira all’omogeneizzazione dei gruppi, tramite l’assimilazione, oppure alla divisione, attraverso la separazione, o ancora al frazionamento, tramite l’emarginazione. Nelle società pluralistiche, però, si può incorrere in un pericolo, quale confondere o, addirittura, perdere la propria identità etnica.

Tajfel (1981) definisce l’identità etnica “quella parte del concetto di sé che deriva dal sapere di essere membro di un gruppo sociale, unitamente al valore e all’importanza emozionale, connessa a tale appartenenza” (pag. 255).

Il concetto di identità etnica, considerata un processo soggettivo, non va confuso con il termine etnicità, che proviene da “ethnos” (popolo di una nazione o di una tribù), usato per riferirsi a gruppi caratterizzati da una comune nazionalità, origine geografica, cultura o linguaggio. Tale costrutto si collega a ciò che appartiene o deriva da tradizioni culturali, razziali, linguistiche di un popolo o di un Paese.

Lo studio dell’identità etnica fornisce una modalità per esplorare il significato di etnicità per se stessi e per gli altri, evitando stereotipi e luoghi comuni (Phinney, 1996). Per di più, l’identità etnica rappresenta un aspetto dell’acculturazione, poiché focalizza gli individui e le loro modalità di connettersi al proprio gruppo come sottogruppo di una “società dominante” (Phinney, 1990).

Tajfel (1978, p. 163), a tal proposito, introduce la “teoria dell’identità sociale”, la quale indica che percepire di appartenere ad un gruppo è legato al benessere psicologico dei membri del gruppo stesso. Un secondo problema, che può avere luogo nelle società suddette, fa riferimento alla conservazione della lingua (comprese le questioni relative all’atteggiamento linguistico, fedeltà alla lingua, vitalità linguistica) e al bilinguismo (compresi i suoi effetti psicologici e il ruolo del bilinguismo scolastico, sul posto di lavoro e nelle pubbliche istituzioni). Certamente, il modo di esprimersi attraverso il linguaggio rappresenta un veicolo fondamentale per collaborare ed integrarsi con il “gruppo dominante”. A tal proposito, è stato riscontrato che la tendenza alla conservazione della lingua d’origine è variabile in base a numerosi fattori di interesse psicologico, come, ad esempio, il desiderio di mantenere il proprio linguaggio nelle nuove società. Forse la variabilità riscontrata entro e attraverso i gruppi negli atteggiamenti generali di acculturazione è un fattore determinante nella distribuzione di atteggiamenti di scarsa o forte conservazione della lingua ( Berry et al., 1987). Prove indirette a conferma di questo legame sono state trovate da Berry et al. (1987): coloro i quali miravano all’assimilazione leggevano giornali e ascoltavano radio locali ed, inoltre, frequentavano club dove si usava solo la lingua del posto; mentre quelli che preferivano l’integrazione o la separazione leggevano giornali, ascoltavano radio e frequentavano locali in cui si usava la lingua d’origine. Durante il processo di acculturazione possono intercedere alcuni fattori protettivi e di rischio. Vediamo come.

Molti studi documentano la relazione positiva esistente fra un buon livello di autostima e la capacità di adattarsi nel paese ospitante. Si rileva, in particolare, che l’adolescente immigrato, dotato di una maggiore stima di sé, adotta un modello attivo per fronteggiare gli stereotipi e le discriminazioni.

Tutto ciò si è dedotto attraverso l’osservazione delle modalità di acculturazione, dell’esperienza acculturativa, del mantenimento culturale e della competenza linguistica, considerati indicatori dello stato di salute mentale (Berry et al., 1987; Neto, 2002), utili per constatare, soprattutto, il rapporto fra adattamento sociale e adattamento psicologico. Questi si riferisce ad un buona condizione di salute mentale e al senso di soddisfazione provato nel nuovo contesto culturale, da contrapporre ad una cattivo stato di salute mentale, che si manifesta con depressione, ansietà e sintomi psicosomatici ( Berry et al., 1997). Simili sintomi implicano disordini comportamentali quali: delinquenza, abuso di sostanze stupefacenti e problemi comportamentali a scuola (Vega et al., 1995).

L’adattamento socioculturale, invece, si espleta attraverso l’apprendimento di nuove risorse (skills) sociali, utili per interagire con la nuova cultura. In particolare, l’adattamento psicologico è stato valutato misurando lo stress e il coping (Lazarus e Folkman, 1984), mentre l’adattamento socioculturale è connesso alla sfera di cognizione dell’apprendimento sociale (Ward et al. 2001).

L’efficacia dei quattro indicatori di salute mentale, in precedenza menzionati, è confermata da una ricerca, che valuta le difficoltà d’adattamento sociale di adolescenti portoghesi, emigrati in Francia con la propria famiglia (Neto, 1994). Attraverso tale studio, sono stati ottenuti quattro risultati:
1. la separazione e la marginalizzazione comportano maggiori difficoltà d’adattamento sociale, contrariamente all’assimilazione e all’integrazione.
2. L’esperienza di acculturazione nella nazione ospitante e la competenza linguistica sono correlate negativamente con i disagi sociali.
3. Le difficoltà d’adattamento sociale sono associate positivamente con lo stress d’acculturazione, ma negativamente con un buon livello d’autostima e di soddisfazione per la propria vita nel paese ospitante.
4. I disagi sociali aumentano per il forte mantenimento della propria cultura d’origine.
Anche da questa ricerca si evince che fra le quattro modalità di acculturazione – assimilazione, integrazione, separazione e marginalizzazione (Berry et al., 1987) -, l’integrazione è la miglior strategia di adattamento (Berry et al., 1987; Neto, 1993a), confermando quanto precedentemente detto.

Oggi, anche a causa dell’incidenza del fenomeno in questione, assume particolare rilievo la psicologia transculturale. Essa “si occupa dello studio sistematico del comportamento e dell’esperienza, esaminando come si presentano in culture diverse, come sono influenzati dalla cultura, o come producono cambiamenti nelle culture esistenti” (Triandis, 1989, p. 1). A tal punto, visto che viene citato più volte, è d’obbligo definire il termine cultura. Quest’ultima è considerata il modello di vita condiviso da un gruppo di persone (Berry J. W., Poortinga Y.H., Segal M.H., Dasen P.R., 1992).

Attualmente, nel campo della psicologia transculturale sta trovando sempre più spazio lo studio di popolazioni diverse ubicate in un solo stato nazionale, motivo per cui Berry (1987) preferisce parlare di psicologia etnica. Risulta, così, più appropriato definire la psicologia transculturale come “lo studio delle similitudini e delle differenze nel meccanismo psicologico individuale, in gruppi etnici e culturali diversi, dei rapporti tra le variabili psicologiche e socio-culturali, ecologiche e biologiche, e delle modifiche in corso di queste variabili”.

Tale disciplina è una scienza interdisciplinare, poiché prende in considerazione sia la psicologia generale, che si focalizza sull’individuo, sia altre materie, come l’antropologia, che, invece, analizzano la popolazione, in modo che si possano creare regole psicologiche universali. Per ottenere tali risultati è fondamentale adottare un punto di vista non-etnocentrico.

Come menzionato inizialmente è interessante osservare l’adattamento psicologico e sociale degli adolescenti immigrati e il fenomeno che ne consegue detto: doppia transizione. Infatti la combinazione dei cambiamenti psicologici, cognitivi e sociali che avviene durante il periodo adolescenziale, provoca ciò che Erikson (1968) ha definito “crisi d’identità”. L’autore riconosce che i problemi possono presentarsi nel corso di tutta la vita, ma considera lo sviluppo d’identità “compito evolutivo” cruciale dell’adolescenza.

Nel periodo adolescenziale i giovani sono impegnati in due compiti evolutivi: l’acquisizione della propria identità e l’esplorazione della propria identità etnica (Phinney, 1990).

Il processo di esplorazione, nello specifico, segue lo sviluppo dell’identità, ovvero l’idea circa se stessi cambia durante il periodo di “crisi”. Per esempio, i ragazzi bianchi che vivono nelle società multiculturali, proprio nel periodo adolescenziale, riflettono maggiormente sulla propria identità etnica e sui problemi razziali (Phinney, 1990).

Ma il fenomeno migratorio rende più arduo negli adolescenti immigrati il processo di co-individuazione (Ardone, Malagoli Togliatti, 1993) – cioè il distanziamento fisiologico fra le generazioni- e la ricerca della propria identità?

Come spiegano Ulman e Tatar (2001) è probabile che gli adolescenti immigrati siano più a rischio di stress psicologico rispetto ai coetanei autoctoni, poiché oltre a dover fronteggiare le difficoltà tipiche di questa fase di sviluppo, si trovano ad affrontare le avversità che comporta l’esperienza migratoria. Difatti, i giovani migranti devono far fronte alla doppia transizione, un difficile compito che vede il giovane impegnato sia nella transizione adolescenziale che nella transizione verso un mondo sconosciuto (Chiarolanza e Ardone, 2003).

Il minore immigrato per affrontare la doppia transizione può attingere a varie risorse. Fra queste è rilevante il ruolo della competenza linguistica, skill fondamentale durante il processo d’adattamento cross-cuturale. Essa, infatti, diminuisce le difficoltà sociali, permettendo una maggior interazione con gli abitanti del luogo (Ward et al., 1999).

Ying (1996) ha condotto degli studi in proposito, dimostrando quanto sia limitativa e di ostacolo la mancanza di conoscenza della lingua del paese ospitante, indicata come fattore di stress post-migratorio. L’autore spiega che tale carenza è condizionante, poiché vincola la possibilità di comunicazione e, di conseguenza, la possibilità di esprimere le proprie abilità in settori diversi; per di più, a causa di questa mancanza, i giovani dimostrano di non essere molto soddisfatti e contenti della qualità della propria vita. Ciò è ben documentato anche da Noels et al. (1996), i quali indicano che i giovani immigrati, che hanno imparato la lingua del posto, hanno maggiore stima di se stessi, migliore locus of control e si sentono meno stressati. Anche il tempo di residenza nella società ospitante è rilevante, in quanto più esso è lungo, maggiore è la competenza linguistica e, di conseguenza, è più elevato il livello di autostima e di locus of control, anche se il senso di soddisfazione per la propria vita sembra non trarne molti benefici (Noels et al., 1996).

In ogni modo, il bilinguismo aiuta nel processo di acculturazione, ma non è determinante nel processo di adattamento sociale ed emozionale degli adolescenti (Aronowitz, 1984).

Poiché l’adolescenza comporta diversi cambiamenti sia fisici che psicologici, forse sarebbe opportuno un senso di stabilità che, di solito, è assicurato al giovane dalla società e dalla cultura. Purtroppo, a volte, sembra che tale supporto venga meno agli adolescenti immigrati i quali, sospesi tra culture diverse, hanno molti impedimenti nel mantenere la stabilità emotiva (Schimmenti, 2001).

Phinney (1990), nelle sue varie ricerche, ha voluto enfatizzare il ruolo centrale svolto dal possedere un’identità etnica forte e sicura, specialmente, nelle società multiculturali.

Per esempio, in un recente studio circa le attitudini intergruppo (Phinney et al., 1997), è stato dimostrato che possedere un senso di identità etnica forte e sicuro è, indirettamente, legato ad atteggiamenti più favorevoli nei confronti di altri gruppi etnici. Inoltre, si è riscontrato che una salda identità etnica è connessa ad un elevato grado d’autostima, che può servire come ammortizzatore contro la percezione di discriminazione (Phinney, 1997).

Phinney (1990) spiega che gli adolescenti, appartenenti ad una minoranza etnica, come tutti i migranti, possono scegliere fra quattro possibilità per integrare la propria etnicità, rimanendo consapevoli di se stessi. La prima possibilità riguarda il concetto d’assimilazione, vale a dire il tentativo di adottare la maggior parte di norme e regole della cultura dominante a spese di quelle del proprio gruppo. La seconda possibilità viene definita marginalizzazione, che significa vivere nella cultura di maggioranza, ma sentendosi estraniati. La terza è la cosiddetta separazione, che si riferisce al sentirsi principalmente uniti ai membri della propria cultura, respingendo la cultura di maggioranza. Infine, la quarta modalità viene definita biculturalismo, ovvero la capacità di mantenere i legami sia con la cultura di maggioranza che con la propria. Gli studi suppongono che il biculturalismo sia l’approccio più adatto per molti adolescenti, poiché permette loro di conservare le norme d’entrambe le culture – di maggioranza e di minoranza – e di scegliere fra queste a seconda delle circostanze (Phinney, 1990). Tale concetto, in pratica, corrisponde a ciò che Berry (1987) definiva integrazione.

E’ stato dimostrato, sia empiricamente che teoricamente, che, oltre alla conoscenza della lingua del posto e alla percezione di un’identità etnica forte e sicura, vi è un altro fattore in grado di far fronte ai problemi conseguenti il processo d’acculturazione, ovvero il supporto familiare (Liebkind, 1994, 1996; Phinney e Chavira, 1995). Infatti, la qualità dell’ambiente familiare e del rapporto con i genitori, senza dimenticare il senso di sicurezza percepito, aiutano l’adolescente ad adattarsi al nuovo contesto sociale (Wentzel e Feldman, 1996).

La struttura familiare rappresenta un’importante risorsa, attraverso la quale avviene lo sviluppo d’identità (Archer e Watermann, 1994) e i genitori, così come altri adulti significativi, quali gli insegnanti, possono aiutare i ragazzi a riflettere sulla propria identità e a raggiungere un sano e forte senso di sé. Ciò è vero sia per l’evoluzione dell’identità etnica che per lo sviluppo d’altri aspetti dell’identità giovanile, per esempio l’identità di genere. Risulta, quindi, fondamentale che i genitori aiutino i loro figli a divenire individui autonomi e non, invece, semplici immagini riflesse di se stessi e delle proprie aspirazioni.

Va sottolineato, però, che diversi studi confermano la correlazione positiva fra il mantenimento culturale tradizionale e le difficoltà sociali. Il supporto sociale e amicale dei compatrioti, infatti, non sembra alleviare la sensazione di stress, anzi sembra incrementarla, soprattutto tra gli immigrati di seconda generazione (Neto, 1994), mentre per i loro genitori tale sostegno è sinonimo di benessere e sicurezza.

Due sono le cause che possono provocare tensione fra gli immigrati e i loro figli:
1. la discrepanza fra i valori tradizionali della famiglia immigrata e quelli della società ospitante, che, di solito, vengono trasmessi attraverso la scuola;
2. la stabilizzazione dei valori tradizionali da parte dei genitori, contro i valori orientati alla modernizzazione da parte dei figli.
In particolare, si è riscontrato che, in genere, la socializzazione parentale non ha una forte relazione con le attitudini comportamentali degli adolescenti (Phinney J. S. & Chavira V., 1995).

E’ bene, quindi, mettere in risalto che il mantenimento dei valori tradizionali relativi alla famiglia, può essere, potenzialmente, sia favorevole che sfavorevole. Gli adolescenti immigrati, infatti, si confrontano continuamente con le norme della società ospitante. Essi sono costretti a fare delle scelte per adattarsi alla nuova condizione di vita, scelte che sono influenzate dalla distanza culturale esistente fra gli immigrati e la nazione ospitante (Berry, 1997). In tale prospettiva, le abitudini tradizionali familiari possono non essere del tutto benefiche. Per esempio, sappiamo che gli adolescenti delle società occidentali, durante la fase di transizione, cercano di rinegoziare il rapporto con i propri genitori, e, allo stesso tempo, porgono più attenzione per le relazioni extrafamiliari e per gli interessi personali (Grob, 1998). Perciò, ad esempio, per i ragazzi dell’Est, emigrati in Occidente, che mantengono valori tradizionali familiari basati sulla restrizione dell’autonomia, lo sviluppo della loro capacità decisionale può risultare più arduo e la loro voglia di cambiare può essere vincolata (Liebkind e Kosonen, 1998).

Possiamo comprendere, quindi, quanto il compito evolutivo sia più difficile e complicato per i giovani immigrati rispetto ai loro pari non-immigrati, soprattutto perchè può succedere che i ragazzi migranti adottino valori della famiglia occidentale molto prima dei loro stessi genitori.

Accade spesso, infatti, che il processo di acculturazione dei minori avvenga prima rispetto ai loro genitori, in quanto, andando a scuola, i ragazzi imparano presto la lingua del posto. Questo fa sì che i migranti più giovani assumano, a volte, il ruolo di mediatori e di interpreti fra la famiglia e la società e, quindi, può avvenire che si sentano soli, poiché il sistema parentale è lontano dal punto di vista intellettuale.

Succede, così, che può verificarsi un disallineamento fra le gerarchie familiari, in quanto le generazioni più adulte dipendono da quelle più giovani per la padronanza linguistica; inoltre, gli adolescenti possono percepire una minaccia alla formazione della propria identità nel momento in cui i genitori impediscono loro di partecipare ai gruppi dei pari del nuovo contesto (Chiarolanza C. e Ardone R., 2003).

Altre ricerche, per di più, dimostrano che i giovani, emigrati in paesi più lontani, tendono a mantenere di meno i loro valori tradizionali e ciò comporta maggiori conflitti con i propri genitori (Liebkind, 1993). Comunque, la lotta dei giovani per il raggiungimento dell’autonomia è sempre esacerbata dalle differenze di acculturazione fra le generazioni (Szapocznik e Kurtines, 1993). Attraverso un’analisi di comparazione fra le varie ricerche, si è arrivati alla conclusione che gli adolescenti, che accettano valori familiari basati sulla limitazione dell’autonomia, tendono ad essere più insoddisfatti della loro vita e ad avere un minore locus of control. Ciò si può ripercuotere su un compito adolescenziale, che coinvolge sia gli immigrati che i non-immigrati, ovvero la combinazione delle regole sociali dei pari con quelle dei propri genitori, anche perché gli adolescenti diventano presto consapevoli del contrasto esistente fra il rapporto collaborativo che hanno con i loro coetanei e quello più unilaterale instaurato con i genitori (Grotevant e Cooper, 1986).

Ad ogni modo, sono pochi gli studi che riguardano i giovani immigrati e i fattori che li potrebbero proteggere da esperienze negative, dovute al fatto di appartenere a gruppi etnici minori (Phinney e Chavira, 1995).

Altri studi, ancora, dimostrano quanto la percezione di discriminazione (PD) abbia un effetto negativo sulla capacità d’adattamento dei ragazzi (Phinney e Chavira, 1995; Vega et al., 1995).

Essa, infatti, incrementa lo stress da acculturazione e i sintomi comportamentali; inoltre, decresce la stima di sé e il livello di soddisfazione della propria vita. Tutto a discapito dell’adattamento psicologico adolescenziale (Vega, 1995).

Attualmente, il numero dei bambini birazziali sta aumentando più in fretta rispetto al numero dei bambini monorazziali, tanto in Italia quanto nel resto d’Europa (Root, 1996). Si calcola che nel 1989 i minorenni stranieri nelle scuole italiane erano 14,000, nel 2003 erano 203,000 e, secondo le stime del ministero dell’Istruzione, saranno 500,000 nel 2010 e 700,000 nel 2017 (“CityRoma” giovedì 11 dicembre 2003.). Proprio nella scuola si giocherà la sfida per l’inserimento dei giovani figli di immigrati, per i quali ci sarà la possibilità di ascensione sociale oppure di conflitto. Quest’ultima ipotesi è da evitare, magari attraverso l’aiuto di un’istruzione interculturale.

Essa desidera aiutare gli studenti a sviluppare atteggiamenti, percezioni e comportamenti cross-culturali corretti (Banks e Banks, 1993). In particolare, gli educatori interculturali credono che il senso di una sana identità e la stima di sé si basano sull’orgoglio personale e su quello della storia del proprio gruppo culturale, oltre che sul concetto di solidarietà e di lealtà, qualità che migliorano con i successi scolastici (Phinney, 1991). Diversi modelli suggeriscono che l’idea di un’identità multirazziale e multietnica può evolvere in modo opportuno durante l’intera infanzia (Wardle, 1991). Perciò, tenendo presente che i concetti concernenti tanto l’identità razziale quanto la diversità etnica iniziano a svilupparsi nella prima infanzia e si intensificano nell’adolescenza, (Phinney e Rotheram, 1987), si può comprendere la necessità di un’istruzione interculturale che inizi sin dall’infanzia per continuare fino all’adolescenza.

L’importanza di tale orientamento educativo è stata confermata anche dal numero crescente di studenti a rischio, appartenenti ad una minoranza etnica, i quali possono trovare difficoltà nel mondo sociale ed economico moderno (Scales P. C., 1991).

Ciò avviene, soprattutto, perché questi ragazzi, ricevono, spesso, messaggi contraddittori dalla cultura di maggioranza. Risulta, quindi, evidente il bisogno di un aiuto particolare che derivi proprio dalla scuola, affinché gli adolescenti, come i bambini, possano sviluppare un positivo senso d’identità (Phinney, 1991).

Non meno importante sarebbe “imparare a diventare genitori in un contesto sociale ed educativo differente, assumere la centralità della funzione educativa del nuovo paese, apprendere la lingua, le norme e l’organizzazione dei servizi educativi: questi sono solo alcuni degli aspetti che dovrebbero trovare posto in un progetto che vede i minori e i genitori insieme a scuola” (Favaro, 1992, p. 41).
Emigrare significa essenzialmente perdere l’involucro identitario costituito da luoghi, odori, colori, suoni, contatti originari” (Nathan, 1996).

Autore: Emanuela Falcone
Fonte: Psicoterapia.it

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