Aspetti psicologici dell’ospedalizzazione

In Psicologia Clinica by Centro PSY

Nonostante il ricovero in ospedale abbia come obiettivo la cura e possibilmente la guarigione del paziente, tale evento porta con sé lo stress di un grande cambiamento. Il paziente, già menomato dalla malattia, si trova a dover fronteggiare diversi aspetti della sua nuova condizione: l’ospedale come ambiente fisico e sociale; il rapporto con il personale ospedaliero; le paure e il conseguente bisogno di rassicurazioni ed infine, in alcuni casi, i problemi psicologici legati alle malattie progressive e terminali. Esistono, dunque, una serie di fattori oggettivi che ogni ospedalizzato deve fronteggiare ed esistono una serie di fattori personali –psicologici e sociali- che vanno ad interagire coi primi dando luogo a reazioni differenti.

Senza dimenticare che un grave disagio viene percepito anche dalla famiglia, che rappresenta anche una delle più ricche fonti di risorse per il malato, di seguito ci occuperemo in particolare di pazienti ospedalizzati di quattro tipologie (Rossi, 2004):
il paziente internistico;
il paziente chirurgico;
il paziente con malattia cronica;
il paziente con prognosi infausta.

Il paziente internistico
L’ambiente fisico dell’ospedale provoca ansia ed irritazione (Farnè, 2001), senso di minaccia, frustrazione e depressione (Rossi, 2004) per una serie di fattori: lontananza dalla famiglia, abbandono delle vecchie abitudini, organizzazione e orari dell’ospedale, rumori, limitazioni dello spazio personale ed infine perdita della propria intimità. Dal momento in cui entra in ospedale, e in particolare nella sua camera, il paziente, mentre è già preoccupato per la sua malattia e quindi pieno di ansie, è obbligato a sperimentare una serie di situazioni nuove: deve indossare un camice rinunciando a simboli di identità personale come i vestiti, fare conoscenza con gli altri degenti della camera, entrando a far parte di un ordine sociale nuovo e a lui sconosciuto, relazionarsi al personale medico e infermieristico, sottoporsi ad esami, deve essere infine collaborativo e passivamente disponile a tutti gli interventi invasivi e alle volte anche dolorosi che verranno decisi per lui (Gammon, 1998). Ne consegue un impatto psicologico, che si può manifestare con reazioni difensive come ansia, aggressività, regressione, depressione, isolamento, che fanno parte di un processo (che se non sostenuto può rimanere un tentativofallito) di adattamento alla nuova realtà.

L’ansia è un vissuto molto comune, anche perché può essere manifestata in relazione a tutti gli aspetti e le fasi dell’ospedalizzazione. Si esprime attraverso alterazioni fisiologiche come quella del sonno, elevati livelli di eccitabilità ed irritabilità. E’ necessario abbracciare queste reazioni procurando rassicurazione, mentre ansiolitici e ipnotici non comprendono il bisogno sottostante e quindi non risolvono il problema.

L’aggressività può essere una reazione al vissuto di ansia, alla paura di diagnosi e terapie e più in generale alla percezione che i propri bisogni e necessità non vengano capiti e soddisfatti.

Per regressione s’intende il ritorno ad uno stadio di sviluppo precedente, con l’attuazione di comportamenti tipici di tale stadio. La persona diventa passiva e dipendente dalle cure degli altri e tale situazione è funzionale al processo di guarigione, perché comporta un risparmio di energie, sempre a condizione che non si prolunghi troppo a lungo.

La depressione è una reazione normale alla perdita dell’ immagine positiva, invulnerabilmente sana e indipendente di sé. E’ adeguato favorirne il superamento attraverso un atteggiamento di comprensione e condivisione.

L’isolamento si realizza attraverso comportamenti o parole che rendono difficoltosa la relazione terapeutica. In nessuno di questi casi è adeguato opporsi in modo diretto, sembra invece che l’instaurare una relazione di fiducia e condivisione con il paziente favorisca il processo di adattamento.

Da queste considerazioni risulta necessario un cambiamento di approccio al malato. Spesso infatti il personale ospedaliero si relaziona alla patologia, anziché alla persona, dimenticando e soprattutto sottovalutando il fatto che un successo terapeutico dipende anche dalle risorse e dal vissuto del soggetto. La proposta è un cambiamento da una visione tradizionalmente medica del concetto di malattia e di cura focalizzato sulla patologia ad un approccio orientato alla salute e alla persona, con la presa di consapevolezza dei bisogni non solo fisici, ma anche psicologici e sociali, caratteristici di ogni singolo individuo.

Viene da chiedersi quali sono tali bisogni, così come percepiti dai ricoverati stessi. Secondo uno studio di Yen (2002), sei sono i fattori sentiti maggiormente come necessità da soddisfare: condizione fisica, rapidità ed efficacia dell’assistenza infermieristica, la responsabilità e l’attitudine del personale a prendersi cura di loro, l’alimentazione e le spese mediche.

A conferma di quanto riportato in precedenza, secondo altri studi (Gustafson, 2001) condotti su pazienti cardiologici, due sono i fattori chiave che delimitano i bisogni di questi malati: l’informazione e il supporto psicologico, considerati fondamentali ma carenti. Coloro che si ritenevano aiutati e socialmente supportati riportavano livelli minori di depressione, nei momenti iniziali. Nella prognosi di persone con infarto miocardico, la depressione e la mancanza di supporto sociale sono i fattori condizionanti una prognosi peggiore.

Il paziente cronico
Il paziente cronico vive la progressione della malattia. Questa affermazione così breve e netta porta con sé una serie di implicazioni psicologiche e comportamentali di grande portata, che vanno ad incidere sull’autostima e sull’identità personale, perché la persona si trova obbligata ad adattare costantemente stile di vita e progettualità al proprio stato di salute. Intenzioni ed azioni della persona sono per la maggior parte rivolte alla cura del proprio corpo, per affrontare con sperato successo i disagi inflittigli dalla malattia. La malattia cronica con il suo progredire assume dimensioni sempre più rilevanti costringendo costantemente la persona a modificarsi, talvolta in maniera inconsapevole, sia nel rapporto con gli altri e con se stessi, sia nell’accettazione del nuovo modo di vivere (Lacroix, 1995) e delle progressive perdite (salute, integrità fisica, normalità, libertà, autonomia).

Per dare un’idea della portata del problema, utilizzeremo dei numeri, sapendo di incappare in considerazioni assolutamente riduttive: l’80% circa delle persone statunitensi non istituzionalizzate con più di 65 anni soffre di una malattia cronica e il 50% presenta compromissioni funzionali e cognitive che vincolano le attività quotidiane. La stessa situazione si ripete in Italia (Beers e Berkow, 2000).

Sono state individuate tre fasi specifiche (Rolland, 1987) attraversate dal malato cronico durante il decorso della malattia, dal momento della diagnosi fino alla morte:
la fase della “crisi”: il malato durante il periodo immediatamente precedente e successivo alla diagnosi inizia a sperimentare i sintomi della patologia;
la fase cronica: il malato attua continui tentativi per adattare la sua vita ai limiti e alle menomazioni in continuo aumento;
la fase terminale: il malato esperisce vissuti di dolore e di morte.
Poiché la malattia cronica richiede un maggior numero di ricoveri ospedalieri rispetto alla malattia internistica o a quella chirurgica, e analizzati i disagi psicologici e sociali che il ricovero in tutti e tre i casi comporta, è intuitivo immaginare come l’ospedalizzazione possa alla lunga causare un indebolimento della spinta motivazionale del paziente nei confronti del suo iter terapeutico.

Non aiuta il fatto che da parte degli operatori sanitari non vi è un riconoscimento della specifica problematicità psicologica affrontata da parte del malato cronico e della sua famiglia. Come negli altri casi di malattia sin qui analizzati, spesso vengono fornite informazioni solo parziali del decorso, omettendo la comunicazione di esami da fare o della data di dimissioni, etc. Tutto questo non fa che aumentare l’ ansia che il paziente vive già quotidianamente e il senso di incertezza oserei dire quasi fisiologica insita nella malattia cronica.

Anche in questo caso la necessità che sembra imporsi è quella di un processo interattivo incentrato al paziente. Una proposta viene dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), secondo cui bisogna avvicinarsi al paziente con un intervento di tipo educativo, mirato ad aiutare la persona a conoscere la malattia di cui è affetta, a comprenderne la terapia, a condividere tale comprensione anche con la famiglia, in modo da gestire le cure in maniera consapevole, aumentare la capacità di autovalutazione, poter prevenire possibili complicazioni derivanti da comportamenti inadeguati con il grande obiettivo finale di migliorare la qualità della vita.

Ma come si realizza nella pratica l’educazione terapeutica?

Innanzitutto deputato a questo tipo di intervento non è un’unica figura professionale, medico, infermiere o psicologo, ma un’equipe di tutti questi, per andare incontro nella maniera più completa possibile alle richieste del paziente e per trasferire a lui tutte le competenze necessarie per ridurre i sentimenti di frustrazione, ansia, incertezza.

Uno strumento di educazione terapeutica è il CDSMP ( Chronic Disease Self Management Program ) o corso di educazione all’autogestione, creato in base alla convinzione che:
pazienti con patologie croniche differenti hanno problemi di strategie adattive simili;
è possibile apprendere le capacità per gestire in modo migliore la malattia;
tale apprendimento facilita la sensazione di benessere nei malati e diminuisce il numero di ricoveri ospedalieri necessari.
L’utilizzo di tale strumento ha effettivamente dato i risultati agognati, favorendo tutti i comportamenti adattivi –compreso il mantenimento e l’ampliamento delle relazioni sociali- che aumentano il sentimento di benessere e riducono i disagi e le difficoltà (Lorig, 2001).

Il paziente chirurgico
Le prove diagnostiche e gli interventi chirurgici, con l’incognita dei loro esiti, provocano disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione, timori sulla propria sorte. Spesso queste risposte emotive vengono aumentate dalla mancata o scarsificata comunicazione con il paziente da parte del personale ospedaliero. Si è osservato che pazienti correttamente informati sul proprio stato di salute, sulle prescrizioni mediche, sulle modalità di somministrazione dell’anestesia, sui rischi dell’intervento e sugli eventuali dolori post-operatori, hanno una degenza inferiore in termini di tempo e di uso di analgesici.

Contrariamente a quanto ritenuto di frequente dal personale, infatti, alcune ricerche dimostrano che in mancanza di informazioni precise sul proprio stato di salute, è facile pensare che la propria condizione sia più grave di quanto non lo sia in realtà. In uno studio di Leo D. Egbert, dell’Università dell’Oregon, un campione di 97 ricoverati per un intervento di chirurgia addominale è stato suddiviso in due gruppi: uno veniva informato in modo dettagliato sulle varie fasi dell’intervento (durata, effetti anestesici, dolori post-operatori), l’altro non riceveva alcuna informazione. I risultati hanno dimostrato quanto il ricevere informazioni sull’intervento migliori le strategie di coping: i pazienti del primo gruppo, infatti, dopo l’intervento richiesero un dosaggio di antidolorifici e sedativi inferiore del 50% rispetto a quelli del secondo gruppo, presentarono minor livello di preoccupazione, irrequietezza e dipendenza dal personale ospedaliero e vennero dimessi in media tre giorni prima.

Molte ricerche confermano l’importanza delle informazioni oggettive sull’andamento dei processi organici, ma includono nella preparazione psicologica altri mezzi per ridurre l’ansia prima e dopo l’intervento: il training autogeno, utilizzato come tecnica di rilassamento, o una psicoterapia breve, per imparare a vivere in modo diverso le sensazioni spiacevoli, ne sono due esempi.

Quindi i fattori che vanno trattati adeguatamente per favorire i presupposti di una risposta positiva all’intervento e di una guarigione più rapida sono le informazioni oggettive fornite al paziente e alla sua famiglia e la gestione dell’ansia e delle paure (di morire, di non risvegliarsi dopo l’anestesia, di esito negativo, del dolore post-operatorio), più o meno forti a seconda di alcuni fattori individuali, quali capacità cognitive, stile di coping, età, variabili psicosociali.

Potremmo distinguere tre fasi durante la degenza di un paziente chirurgico, con relative problematiche:
Una fase preoperatoria, in cui il paziente, nella maggior parte dei casi, vive un elevato livello di distress psicologico. Questo particolare tipo di “stress negativo” caratterizzante tutti i tipi di ricovero, in questa situazione si acuisce e l’intervento chirurgico assume un carattere di ambivalenza, in quanto oscillante tra l’essere potenzialmente portatore di guarigione oppure di ulteriore sofferenza. Se questa ansia non viene ridotta, si rischiano reazioni aggressive da parte del malato, con ulteriore aumento del distress, prima, e difficoltà di riduzione del dolore, dopo. Se l’organizzazione dell’Io dell’individuo non è sufficiente, il vissuto di timore per un pericolo incontrollabile può causare nel malato un grave stato di depressione, insicurezza, irrequietezza, insonnia e incubi; in alcuni casi, a causa della situazione di forte dipendenza e passività, si possono attivare forti modalità di regressione. In questa fase è importante per il futuro andamento della malattia, capire e valutare se il paziente necessita di interventi preventivi per rendere questo periodo il meno stressante possibile. Essere fumatori o no, scolarità, sesso, presenza di dolore ed esperienze precedenti hanno influenza sul vissuto di ansia. Più specificamente i soggetti più colpiti sembrano essere: i fumatori, le donne, coloro che hanno un livello di scolarità superiore, coloro che non hanno mai subito un intervento (ma anche coloro che lo hanno già subito, ma che hanno vissuto un’esperienza negativa), e infine gli interventi che comportano una mutilazione. Soprattutto se l’intervento è di questo tipo, infatti, suscita fantasie connesse alla perdita di organi, che “coinvolgono l’investimento lipidico relativo a quell’organo e a quella parte, nonché la modificazione dell’immagine corporea” (Bellotti & Bellani, 1991).
L’anestesia, che costituisce uno degli aspetti più preoccupanti dell’intervento per il paziente. Le paure scaturiscono dal fatto che il paziente non è cosciente, non è sveglio, ma si deve abbandonare completamente alle mani del chirurgo e della sua equipe. Il paziente ha paura di sentire dolore, di svegliarsi durante l’intervento o anche di non svegliarsi mai più. E’ corretto e adeguato per ridurre queste paure un’informazione il più possibile dettagliata.
La fase post-operatoria, che è condizionata da queste informazioni, cioè quelle fornite prima dell’intervento. Come spiegato all’inizio, la durata della degenza e del dolore post-operatori e l’uso di farmaci è indirettamente proporzionale alla quantità e alla correttezza delle informazioni fornite al paziente sul suo stato di salute e sull’intervento chirurgico.

Il paziente con prognosi infausta
Nonostante gli indiscutibili progressi che la scienza ha fatto e continua a fare in materia di salute, sia a livello diagnostico che terapeutico, rimane il problema della morte e del trattamento del malato terminale. Anche in questo caso, anzi, la tentazione è di dire soprattutto in questo caso, sembra fondamentale mettere al centro degli obiettivi della medicina non più il debellamento della malattia, ma il malato nella sua globalità (Corli, 1988).

La serie di problemi psicologici che si generano durante una degenza con prognosi infausta sono di diversa natura: da quelli relativi alla propria identità (derivanti dalla perdita del ruolo professionale ed economico, la perdita del ruolo nell’ambito familiare, declino delle capacità intellettuali); alle conseguenze emotive prodotte dalla malattia e dalle terapie (paura di morire, paura che il dolore diventi insopportabile, paura di perdere l’autocontrollo mentale e/o fisico, paura di diventare un peso per la famiglia, paura di morire prima di aver risolto problemi rimasti in sospeso, soprattutto relazionali).

Naturalmente c’è una fase che anticipa tutto questo e che riguarda i medici della comunicazione di prognosi infausta o gli operatori che danno la notizia al malato. Comunicare a qualcuno che è portatore di prognosi infausta è un compito delicato e difficile, ci sono la paura di portare dolore, di sentirsi accusati perché messaggeri di una cattiva notizia, di dirlo nel modo sbagliato perché non si ha ricevuto alcun insegnamento a riguardo, la paura di non contenere le proprie emozioni mantenendo la calma, la personale paura della morte (Buckman, 1992). Così ancora una volta l’operatore è portato a informare in modo insufficiente il malato circa la propria prognosi, fornendo informazioni solo parziali o ambigue, attraverso omissioni. In questo modo l’operatore può far generare false illusioni nel paziente, invece che speranze legate a obiettivi realistici, come l’assenza di dolore. Esiste tuttavia il diritto di non sapere. Una volta accertata la volontà del malato di non avere notizie sullo stato della malattia per non aumentare l’angoscia, è doveroso rispettare le sue difese, in modo che alla persona sia data la possibilità di confrontarsi con la verità che in quel momento della sua vita è in grado di comprendere e accettare (Bellani, 2002).

Secondo Elisabeth Kubler-Ross, quasi tutti i pazienti percorrono cinque fasi di adattamento, non necessariamente nell’ordine qui di seguito:
la negazione o rifiuto, che è inizialmente funzionale all’elaborazione;
la rabbia, diretta in tutte le direzioni;
il patteggiamento, con Dio o la sorte, in cui il desiderio di vita viene limitato agli ultimi desideri;
la depressione, che sostituisce le prime due fasi, nel momento in cui il paziente non può più negare l’aggravarsi della sua malattia. La depressione è reattiva, ovvero secondaria alla situazione, e preparatoria, correlata ai vissuti anticipatori di separazione dalla vita, dalle persone care, da luoghi e cose amate;
Infine , se il paziente ha avuto il tempo e l’aiuto per superare queste fasi, c’è ll’accettazione. La debilitazione fisica può trasformare la stanchezza in desiderio di riposo, non più temuto, ma quasi desiderato.
Alla luce di queste informazioni, sembra necessario per gli operatori dell’area sanitaria poter contare su una solida competenza psicologica, per dare un contributo alla guarigione o almeno al miglioramento della qualità della vita di chi, come il paziente ospedalizzato, si trova in una condizione di disagio e debolezza.

Fonte: Psicoterapia.it
Autore: Monica Martin

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