A fianco del morente

In Psicologia Clinica, Psicologia Clinica Famiglia by Centro PSY

Da sempre l’uomo cerca la qualità della vita, non pensando mai alla morte, per quanto tale evento gli rappresenti la sua destinazione finale e certa; dunque il consentire all’uomo, già penalizzato dall’approssimarsi di una data intuita e non voluta, la possibilità di mantenere una sufficiente qualità della vita, ha il risultato di rilanciare un’aspettativa, e quindi una volontà di futuro, proprio laddove sembrerebbe essere già tutto deciso.

Sia questo l’auspicio di chi desidera occuparsi di “assistenza palliativa”, cioè desidera occuparsi attivamente di chi è in una fase conclusiva della vita a causa di situazioni incurabili di malattia, al fine di permettere non solo di morire bene, piuttosto di vivere al massimo grado quanto ancora i giorni di vita gli possono consentire: non “compagni” di chi solo attende la morte, ma “compagni” che aiutano a significare il tempo della vita che ancora ci sarà.

E’ utile iniziare con la definizione comunemente assunta di malato terminale. Considero questa espressione infelice perché ci suggerisce l’immagine di un agonizzante, un’immagine mai del tutto veritiera e che solo considera quel particolare paziente ai cui parenti il medico ha sentenziato: “non c’è più nulla da fare”.

Si deve invece intendere quel malato che non risponde più a nessun trattamento capace di influenzare il progressivo aggravarsi della situazione clinica: un paziente che non può più essere guarito, ma che certo non deve essere abbandonato, perché sono proprio le fasi più avanzate della malattia che lo mettono nella condizione di avere maggiormente bisogno di cure in senso lato. Dei famigliari, del medico, dell’infermiere, del consulente, del volontario, dell’operatore pastorale…

Purtroppo i percorsi di formazione per qualsiasi professionalità ed il clima culturale della nostra società non preparano ad affrontare queste situazioni, soprattutto perché l’ottica esclusiva è la guarigione e l’insuccesso terapeutico è considerato uno scacco tale da impedire spesso di prendersi cura del malato destinato a morire. L’impreparazione riguarda sia gli aspetti tecnici (per la scarsa capacità di controllare tutti i sintomi) sia, ed in maggior misura, gli aspetti relazionali con una persona ammalata e la cui sofferenza può essere globale: fisica, emotiva, spirituale, sociale.

Curare quando non c’è un guarire
Parlando di cure palliative un obiettivo prioritario è dunque una diversa e più completa preparazione degli operatori sanitari ed assistenziali, affinché le modalità per questo tipo di cure oggi conosciute siano a disposizione di tutti, e vengano sviluppate nuove ricerche multidisciplinari in questo ambito. Si potrebbe allora diffondere una nuova sensibilità anche nella popolazione, potrebbe cambiare la rappresentazione collettiva della sofferenza e della morte, e si darebbero attenzioni e risorse all’organizzazione degli interventi palliativi, che per noi sono offrire cure ed assistenza adeguate anche quando non è più possibile la guarigione.

Occorre un’attitudine assistenziale rivolta prima alla persona e poi alla malattia, avendo al centro i reali bisogni del malato e le sue richieste; l’obiettivo principale diventa la qualità della vita della persona e non solo la sua sopravvivenza, obiettivo che sarebbe tale quando le cure fossero volte alla sola ostacolazione del processo del morire con l’accanimento terapeutico; le potenzialità del malato, oggi compresse ed atrofizzate dal modello clinico tradizionale, vanno mantenute attive e stimolate dalla rieducazione ad essere il soggetto principale del processo decisionale; occorre riconsiderare il morire quale un processo naturale, assicurando al malato il massimo comfort possibile, senza tuttavia affrettare nè posporre la morte. L’attenzione deve rivolgersi in primo luogo al malato e poi ai suoi famigliari con interventi che siano ad un tempo clinici, psicosociali e spirituali. Per questo è assai importante il lavoro in équipe, perché solo operatori con diverse professionalità, integrando i loro interventi, potranno costruire una valida rete di protezione attorno al paziente, così da salvaguardare la sua personalità ancorché morente, e valorizzando la presenza dei famigliari ed amici significativamente coinvolti nell’alleviare le sofferenze del loro caro.

Il paziente ha sicuramente momenti di particolare difficoltà relazionale e problemi legati alla paura che il dolore diventi incontrollabile, ha paura di perdere l’autocontrollo mentale e fisico e di perdere il proprio ruolo nella famiglia e nella società, diventando un gravoso peso per gli altri;…sullo sfondo è poi sempre presente il timore della morte.

Non è certo semplice offrire una nostra positiva presenza accanto a questi ammalati durante l’accompagnamento nel cammino, spesso travagliato, verso la fine, e non è possibile consigliare un comportamento standardizzato ed in tutti i casi formalmente corretto: mai come in questi momenti è evidente l’UNICITA’ della persona affidata alle nostre cure. Si potrebbe tuttavia sempre consigliare che la comunicazione sia autentica: non si abbia paura che possa venire meno la nostra intelligente professionalità se lasciamo emergere le nostre emozioni; non si tema che tale manifestazione sia una debolezza, come spesso ci viene insegnato, piuttosto una potenzialità per un rapporto più vero ed onesto con il malato.

Gli operatori, a qualunque titolo intervengono, pensano spesso che dedicarsi alla cure palliative sia fonte di frustrazione e assenza di “gratificazioni”, essendo quasi sempre condannati all’impotenza, ma se il lavoro è logorante ed anche a rischio di burn-out, è comunque incalcolabile l’arricchimento vicendevole che può dare la vicinanza con chi è morente, e le cui ultime parole sono sovente una sintesi delle esperienze e delle acquisizioni di tutta una vita, espresse con una intensità comunicativa ed una profondità di emozioni, difficilmente raggiungibili in altri momenti.

Unità di cura
In questa sede non discuteremo circa l’ambiente ove avviene il nostro incontro con il malato in questa particolare fase della sua storia, e quindi se sia meglio l’ospedale, piuttosto che la casa con l’home-care, o l’hospice, va da sé tuttavia che tra alternative possibili andrebbe sempre privilegiato un luogo fatto di presenze affettuose, oggetti rassicuranti, piaceri di abitudini mantenute, e quindi un luogo ove privilegiato è il ruolo attivo di chi è “famiglia” per lui. E c’è sempre, anche se in certi momenti difficili qualcuno scappa lontano, chi della famiglia desidera stare accanto al proprio caro fino alla fine, per quanto tema di non essere in grado di affrontare tutti i problemi assistenziali e abbia paura di trovarsi impreparato in un momento difficile o delicato nell’evoluzione della malattia.

Spesso i famigliari, alla morte della persona, raccontano la soddisfazione di avere contribuito con un ruolo attivo al progetto di cure, raccontano la serenità con cui sono stati accanto al morente ed hanno comunicato affettuosamente con lui, ma contemporaneamente sottolineano la gravosità di un simile compito, la stanchezza di certi momenti, le tensioni e le crisi nei rapporti famigliari.

Occorre dunque impostare un serio intervento di supporto non solo verso il malato ma anche verso la famiglia, che non può basarsi su semplici generalizzazioni, perché si è di fronte ad un gruppo che, davanti ad una diagnosi di malattia inguaribile, ha visto infrangersi delicati equilibri e si trova in una fase di ristrutturazione dei vissuti, sia dei singoli componenti che di quelli collettivi. In quest’opera un valido supporto viene offerto dai volontari che devono però essere specificatamente formati a questo compito e devono non solo essere formalmente accettati, ma far parte integrante dell’équipe.

Tutti gli operatori delle cure palliative devono avere la consapevolezza che l’alleanza tra terapeuti, con la rinuncia ad anacronistiche primogeniture e a superbe presunzioni, è tappa importante per l’evolversi di questa disciplina, e proprio sulla alleanza, o meglio sulle alleanze terapeutiche, desidero concludere questa parte dello scritto.

Parliamo dell’alleanza tra i membri dell’équipe: nasce dal conoscere il lavoro degli altri e rispettarlo, dal riconoscere anche esplicitamente le competenze altrui, dal comunicarsi frequentemente informazioni e vissuti col paziente, dall’incontrarsi periodicamente per discutere e scaricare tensioni, rivalità, critiche.

Credo che così si possa costruire una vera UNITA’ DI CURA.

La più importante però è l’alleanza con il malato: si basa, prima di tutto, sul rispetto delle sue abitudini, dei suoi tempi, della sua volontà; nell’avere a cuore i bisogni reali (controllo del dolore, insonnia, stipsi, tosse, alimentazione,…); aiutandolo con il minor numero di cure e medicinali, ma con la massima rassicurazione che non sarà mai lasciato solo, ed anzi che ci sarà una presenza discreta ma continua fino alla fine.

La terza alleanza è quella tra l’équipe e la famiglia. Il nostro lavoro può essere presente per tutte le ore del giorno, ma più spesso solo per poche ore nei casi di home-care, mentre la maggior parte dell’assistenza è a carico della famiglia: non dovranno mai diventare ore di solitudine, o di paura per gli imprevisti.

Una prima caratteristica nell’alleanza con la famiglia deve essere sempre la chiarezza sulle prestazioni da effettuare o effettuate, e le possibilità reali di intervento: che cosa possiamo effettivamente garantire o non garantire. Il secondo passo deve tendere alla formazione dei famigliari su che cosa fare (chiamare il medico, o l’infermiere, o il volontario, o fare da soli…), quando fare (la gestione dei farmaci e l’alimentazione, la terapia “al bisogno”…), come fare (la mobilizzazione del malato, la sua igiene, il cambio della biancheria…).

CREARE UNA COMUNITA’ DI INTENTI INTORNO AL MALATO: questo è l’obiettivo contro le false aspettative del malato che si domanda “Perché non guarisco?”, dei famigliari che si domandano “Perché non lo guarite?”, degli operatori che si domandano “Perché non guarisce?”.

Dopo speranze, illusioni, delusioni, sofferenze, resta un compito di elevata professionalità e che è l’antico modo di “fare medicina” in senso lato: prendersi cura del malato ed accompagnarlo fino alla fine della malattia. Laddove sempre, e di ciò siamo convinti, continua comunque la Vita.

Comprendere ciò che si è stati
Gli Operatori e i Volontari sottolineano spesso la difficoltà incontrata nello stare a fianco di un malato per un tempo più lungo di quello normalmente necessario per le strette cure mediche o assistenziali; allora emergono timori legati alla propria capacità relazionale, i dubbi circa DI CHE COSA e COME parlarne, COSA DIRE e COSA TACERE, come attuare un’azione di sostegno psicoaffettivo che non sia solo un momento di abbandono alla compassione nostalgica, al vittimismo, al lamento infruttuoso.

In una parola, come cercare di trasformare quei momenti di incontro tra persone in preziose occasioni di crescita, quando non anche di conversione positiva di considerazioni sul sé, sulla propria vita e su quello che sta per accadere.

Il momento del morire può diventare l’occasione per rendere presente di nuovo ciò che si sottrae alla coscienza, l’aldilà delle cose e del tempo, il cuore delle angosce e delle speranze, la sofferenza del dialogo eterno della vita e della morte. Nel momento di maggiore solitudine, con il corpo spezzato sulla soglia dell’infinito, subentra un altro tempo che non può essere misurato con i nostri criteri; così che in pochi giorni o in pochi attimi, con l’aiuto di una presenza che permetta alla disperazione e al dolore di esprimersi, il malato può anche comprendere la propria vita, se ne appropria, ne manifesta tutta la verità. Alcuni scoprono anche la libertà di poter essere se stessi, come se quando tutto sta finendo tutto si liberasse finalmente dal groviglio di teli e di illusioni che, fino ad allora, aveva reso difficile l’appartenere interamente a se stessi. Il mistero di esistere, di morire, non è affatto chiarito, ma è vissuto pienamente: è forse il più bell’insegnamento che si può avere ed offrire. La morte può far sì che un essere diventi ciò che era chiamato a divenire, può essere nella piena accezione del termine il compimento della sua esistenza. L’idea è che della morte bisogna farne qualcosa.

E’ tutto qui in poche parole: il corpo dominato dallo spirito, l’angoscia vinta dalla fiducia, la pienezza del destino compiuto; ma se la vita è preziosa, a cosa può valere il morire? Se della morte bisogna farne qualcosa, la morte può divenire il momento per portare a termine il compito della propria vita.

Ha scritto Tagore:
“Allora chiesero al maestro: ora vogliamo chiederti della morte. E lui disse: voi vorreste conoscere il segreto della morte, ma come potete scoprirlo se non cercandolo nel cuore della vita? Il gufo, i cui occhi notturni sono ciechi al giorno, non può svelarci il mistero della luce. Se allora volete davvero conoscere lo spirito della morte spalancate il vostro cuore al corpo della vita, poiché vita e morte sono una cosa sola, come una cosa sola sono il fiume e il mare”.
Il momento della cura palliativa, in senso lato, è quello che può far sì che il malato, senza una sofferenza inutile, faccia risplendere quello che la vita può ancora permettergli. Sono dell’ex Presidente francese Mitterand le parole: “La morte diventa il momento in cui un uomo si appropria della propria esistenza”; come dire che il momento del morire, se ben vissuto, se ben accompagnato, è quello che permette all’essere umano di comprendere il perché ha vissuto, il senso di certi episodi. Il momento in cui può comprendere quella che, dal punto di vista psicologico, è la sua identità; il momento per comprendere chi è stato, per quale motivo è stato, che cosa è stata la sua vita, che senso hanno i 50, 30, 20, 70, 90 anni che ha alle spalle.

E’ significativo, al proposito, l’episodio raccontato in più occasioni dallo psichiatra viennese Viktor Frankl.

Era stato invitato dal direttore del carcere americano di S. Quentin a tenere una conferenza per i carcerati circa il senso della vita, il senso di colpa e la riabilitazione psicosociale, ma soprattutto per dare forza e sostegno a persone alle quali la lunga detenzione aveva tolto la speranza.

Per ascoltare il discorso tutti i detenuti sarebbero stati adunati in un grande salone, tranne quelli nel “braccio della morte” ai quali, non potendo essi unirsi agli altri, il messaggio sarebbe giunto attraverso l’impianto audiofonico interno. Tra questi ce n’era uno la cui esecuzione sarebbe avvenuta due giorni dopo, e allo psichiatra dissero: “Senta Dottore, lei ovviamente parlerà a tutti, ma tenga conto in modo particolare di quel condannato e, magari senza rivolgersi direttamente a lui, dica qualcosa che possa per lui essere comunque speciale”.

Frankl pronunciò dunque il suo discorso e alla fine, rivolgendosi quasi direttamente a quel particolare detenuto, disse:
“…voi solo potete sapere se la vostra vita è una vita che ha avuto un senso o meno, e questo non sulla base dei torti o degli errori che avete commesso, piuttosto sulla base di quello che sapete essere stato sensato per e nella vostra vita, qualcosa per cui potrete dire un domani: ecco, io sono vissuto per quello. Allora non importa se la vostra vita sta per finire, importante è che mentre c’è stata abbia avuto anche solo un motivo per essere stata”.
Circa un mese più tardi il Direttore del carcere inviò al prof. Frankl una lettera contenente un rinnovo dei ringraziamenti a nome di tutti per il discorso tenuto e, insieme, uno scritto che quel condannato a morte aveva preparato per lo psichiatra poche ore prima dell’esecuzione.

Il tono della lettera era di questo tipo: “Caro Professore, io la ringrazio per le parole che ci ha detto, ma soprattutto per le parole che MI ha detto, perché se non erano rivolte direttamente a me, io le ho ascoltate come se invece mi fossero esclusive. Ebbene, mancavano quarantotto ore alla mia morte e io stavo trascorrendo il tempo ripensando a tutte le cose che avevo fatto negli anni, ma in modo quasi esclusivo alla donna che avevo ucciso e per cui ero stato condannato a pagare con la vita; pensavo, insomma, a tutte cose negative. Lei invece mi ha invitato a fare ciò che non avrei mai pensato di fare da solo, a pensare cioè se nella mia vita c’era qualcosa per la quale potessi dire grazie di essere stato messo al mondo. E ho ripensato ad un biennio di molto tempo prima quando ero stato sposato e dall’unione era nato un bambino: mio figlio, al quale non pensavo più da tempo! E così ho fatto riaffiorare alla memoria splendidi momenti passati in sua compagnia quando, in serenità, giocavo in casa con lui e mia moglie: ho pensato che in quei mesi io avevo vissuto bene e anche il bambino, forse un po’ per merito mio, aveva vissuto bene. Mi sono detto allora che forse la mia vita era stata principalmente una sequela di cose efferate e di gesti disgraziati, ma per quasi due anni avevo vissuto una vita normale ed ero stato anche un buon padre di famiglia e un buon marito. Ecco, Professore, è come se un istante prima di morire io pensassi che potevo dire grazie alla vita per avermi permesso di avere vissuto, anche se per un brevissimo tempo, qualcosa di significativo. Se ho dunque una mia identità, questa non è solo per essere stato un delinquente, ma anche e soprattutto per quanto ho vissuto insieme a quel bambino e sua madre. Sono meno scontento di morire sapendo che, comunque, ho fatto qualcosa di buono anche se per poco”.

Riflettiamo: quei due anni non cancellano il resto della sua vita, nè annullano il motivo della condanna, tuttavia servono per illuminare retrospettivamente la sua esistenza; è cercare il tassello positivo che permette di identificarsi in qualcosa di più delle sole cose negative, o tristi, o insignificanti.

L’accompagnamento del morente è dunque occasione per permettere all’individuo di comprendere il perché ha vissuto, di dare un nome alla propria storia, imparando a fare anche un più giusto ed igienico ordine nei ricordi. Così che se non si potrà mai più annullare il negativo, si potrà comunque significarlo e lavorare con amore per andare oltre.

Cos’è il morire per chi accompagna
Il fatto è che nessuno può sapere se vale la pena impegnare energie per fare progetti di vita (anche solo per poche ore) quando si sa che sta per sopraggiungere la fine, tuttavia diviene necessario ricordare che fintanto che si è vivi il compito non è domandarsi se vale la pena impegnare energia, perchè ciò che è importante è impiegare energia; un’energia per riempire il tempo che resta con qualcosa di significativo, quasi che, rincorrendo il tempo, fosse necessario cercare di rendere ulteriormente significativa, ancora con un ultimo gesto, tutta una vita. E il solo vivere il tempo del morire con significatività potrebbe rappresentare la più alta e nobile prestazione di una vita che invece, e per mille motivi, potrebbe apparire allo stesso morente ormai disperato come poco significativa.

Accompagnare nel morire è anche avere la forza di dire: “Ci vediamo domani!”.

E poi quale e dove sia questo Domani nessuno dei due lo sa veramente, ma se chi accompagna ha la certezza negli occhi che “domani” ci rivedremo, fors’anche solo inconsciamente ma trasmette nell’espressione più elevata il concetto di speranza. Perchè nell’accompagnare il morente non si dimentichi mai di dare spazio alla speranza, sia pure a breve termine.

Occorre ancora riflettere sul fatto che per avvicinare e comprendere la dimensione intrapsichica della morte, del lutto e dell’afflizione, è essenziale fare riferimento al contesto sociale in cui si realizzano; esso contribuisce in modo rilevante a delineare i significati che gli eventi hanno per gli individui ed i gruppi, perchè è nell’ambiente socioculturale in cui si vive che il mondo reale ed il mondo simbolico si intrecciano dando luogo ai significati personali e professionali che ciascuno attribuisce alle cose.

Si capisce allora come talvolta al letto del morente si incontrino e si scontrino significati differenti, che le persone si sono costruite nel tempo e in relazione alla cultura, intesa come tempo e come luogo, in cui sono nate e cresciute.

L’argomento MORTE non è mai dei più lieti ed è naturale che provochi istintivamente disagio e repulsione. E tuttavia riflettere sulla morte, passato lo smarrimento iniziale assolutamente comprensibile, permette di scoprire nuovi significati e nuove dimensioni della vita: il morire fa parte della vita.

Ma perchè l’assistito possa vivere con dignità la morte, nel rispetto di sè come persona, c’è bisogno che l’operatore si chieda e sappia come essere d’aiuto per la persona e i suoi famigliari.

Diventa allora doveroso iniziare un cammino di consapevolezza, formazione e auto-formazione tale da mettere in grado di accompagnare il morente lungo tutto il difficile percorso di avvicinamento, e nel momento decisivo.

Il percorso di formazione (psicologica) dell’operatore si articola lungo tre assi:
conoscere se stessi;
conoscere il morente;
saper mettere in atto una comunicazione efficace.

Soffermiamoci sul primo punto. La conoscenza di sè è importante: prendere coscienza delle proprie paure e delle proprie reazioni di fronte alle perdite e ai lutti è condizione per una maggiore consapevolezza nella relazione. Emergono sentimenti di ribellione, paura, smarrimento, rifiuto dell’idea, ansia, voglia di piangere…; ma anche pace, speranza, curiosità…. il tutto in un assommarsi confuso e intenso di emozioni che turbano e lasciano senza fiato.

Essere (o divenire) consapevoli dell’intensità dei propri vissuti è condizione essenziale per potersi porre in modo non banale di fronte ai vissuti del morente: solo chi ha il coraggio di guardare fino in fondo dentro di sè è in grado di accettare e con-dividere la sofferenza altrui. Senza questo inevitabile e doloroso passaggio l’assistenza corre il rischio di porsi in maniera stereotipata, superficiale e poco empatica di fronte al malato terminale.

In questo lavoro di ricerca dentro di sè l’operatore-volontario potrà riflettere su come vive quei “piccoli o grandi lutti” che quotidianamente lo colpiscono: la morte di una delle sue piante, la partenza di una persona cara, la distruzione di un sogno, la fine di un rapporto…

Egli sarà così in grado di com-prendere meglio anche quella serie di “piccoli o grandi lutti” che preparano il morente a quello definitivo: la perdita dell’autonomia, dell’appetito, della speranza, della gioia di vivere…

La conoscenza di sè libera dalla paura di un coinvolgimento emotivo senza controllo, ed anzi permette una maggiore attenzione, interesse, confidenza, vicinanza. Conoscere se stessi permette in definitiva di prendere coscienza della propria ambivalenza, di evitare identificazioni o proiezioni, riuscendo a gestire le proprie forti emozioni. L’autoconoscenza permette di entrare correttamente in empatia: comprendere fino in fondo l’altro come se “si fosse nei suoi panni”, ma sempre conservando “i propri panni”, ed essere se stessi per un’assistenza completa, profonda, veramente attenta più all’altro che a sè.

Parlare dell’arte dell’accompagnare il morente non si può concludere in poche pagine, queste, se servono, lo fanno solo per stimolare ad una sempre maggiore attenzione alla necessità di non evitare il problema per la paura del suo oggetto. Perchè a vivere un tale oggetto è sempre e solo un soggetto, quello che ci viene affidato: un uomo che soffre, una persona che “va oltre”, una persona che dev’essere aiutata a…, non fermata dal…

Fonte. psicoterapia.it
Autore: PaoloGiovanni Monformoso

Se vuoi approfondire di persona questo argomento, prendi un appuntamento gratuito cliccando qui

Se vuoi approfondire di persona questo argomento, compila il form sottostante per un appuntamento gratuito.